Mattia Feltri, La Stampa 25/7/2014, 25 luglio 2014
L’ADUNATA DEI COMMESSI
D’improvviso in questi corridoi dominati da un silenzio templare, dove al massimo rintoccano i passi e frusciano i fogli di protocollo e si sussurrano saluti, è stata la profanazione. E per di più organizzata dagli stessi sacerdoti della liturgia legislativa – gli assistenti e i consiglieri parlamentari, i collaboratori tecnici, i commessi, i documentaristi, gli uscieri, e cioè le sentinelle del decoro e dell’ordine costituito – che si sono radunati fuori dalla presidenza. Lì Laura Boldrini, coi suoi vice e gli altri membri dell’ufficio, stava stendendo il documento che stabilisce – secondo linee ancora generali ma già impietose – la riduzione degli stipendi. I dipendenti della Camera avevano fissato una riunione per ieri mattina alle 8.30, e poi tutto è cambiato. Si sono riversati fuori dalla stanza della Boldrini, in un improvvisato sit in percorso da un nervosismo esibito. Vietato avvicinarsi. Il centinaio abbondante di manifestanti si scambiava in drappelli propositi guerreschi. E quando sono usciti Roberto Giachetti e Marina Sereni del Pd, e Luigi Di Maio e Roberto Fraccaro dei Cinque stelle, la truppa ha fatto un passo indietro e poi uno in avanti, si è quasi schierata in picchetto d’onore, e si è alzato un applauso prima solitario, poi ampio, infine condiviso: un applauso ironico – «bravi», dicevano. «Bravi, bis». «Complimenti». «Bel capolavoro». «I vostri stipendi però non li toccate, vero?». Pochi secondi, finché il piccolo tumulto non si è spento, il corridoio liberato, e il palazzo riconsegnato alla sua compunzione.
La faccenda deriva dal tetto agli stipendi deciso dal governo: 240 mila euro. In realtà alla Camera non sono molti i dipendenti retribuiti oltre la soglia, giusto i consiglieri parlamentari con trent’anni di servizio (228mila dopo vent’anni, arrivano sino a 358mila lordi dopo quarant’anni). Quanti siano – sul migliaio di dipendenti – non si sa. È numero senz’altro ridotto, ma di cui nemmeno la Camera ha disponibilità. E allora? E allora il problema è che riducendo le buste paga più alte, saranno ridotte anche tutte le altre «in modo da mantenere inalterati i rapporti retributivi oggi esistenti tra le varie professionalità», come dice la Sereni. E cioè, va evitato che uno di grado superiore guadagni quanto, o meno, di uno di grado inferiore. Insomma, un domino che fa imbufalire tutti, nonostante la presidente Boldrini abbia invitato a responsabilità e consapevolezza, poiché «il Paese reale, che non ha più reti di protezione sociale» è là fuori e guarda digrignante (e si chiede perché il tetto non valga per i parlamentari).
Nessuna risposta dai sindacati, che attendono l’inizio delle trattative, forse già stasera; ma alcuni dipendenti, in cambio dell’anonimato, hanno deciso di spiegare. Ecco il sugo di una lunga conversazione a quattro: «È chiaro che ci dà fastidio vedere i nostri redditi tagliati, anche se non sappiamo di quanto. Ma ancora più fastidio ce lo dà apprenderlo dai giornali, perché a noi non ha detto niente nessuno. Articoli, qualche voce di palazzo, sms che girano, ma niente di ufficiale. Per questo volevamo essere ricevuti nell’ufficio di presidenza (ma hanno rifiutato un incontro mercoledì al Comitato affari del personale presieduto dalla Sereni, ndr)». Di nuovo: «Parliamo perché siamo stufi di passare per supercasta. Noi non abbiamo rubato in chiesa, siamo stati assunti dopo un concorso pubblico e lo stipendio era chiaro. È un buonissimo stipendio, io con oltre vent’anni di anzianità prendo 3mila e 850 euro al mese, lui che è un collaboratore tecnico con dieci anni però è ben sotto i tremila, un assistente parlamentare appena assunto non arriva ai duemila, e in cambio di questi quattrini noi abbiamo la reperibilità 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno. Ognuno di noi fa sette-otto notti all’anno in turnazione, senza contare che il Parlamento può funzionare – e succede spesso – il sabato, la domenica, ad agosto, a Natale. Ci sono le sedute notturne, le sedute fiume. Si rientra ad agosto. Gli straordinari, centinaia di ore l’anno, non sono pagati. Qui tutti noi abbiamo trecento, quattrocento giorni di ferie arretrate. C’è un nostro collega che ne ha più di settecento, e sono congelate. Ci propongono di andare in ferie fino a esaurimento e poi in pensione, chi è in età, ma è ingiusto: le ferie vanno pagate. Capiamo che c’è la crisi, ma la riduzione dello stipendio si dovrebbe almeno discutere, e si dovrebbe spiegare che così privilegiati non siamo».
Non sarà una gita in campagna. Marina Sereni sorride e diffonde stille di perfidia. Dispiacciono le contestazioni, dice, ma non sarebbe stato normale se il luogo dove si legifera non applicasse a sé le leggi applicate agli altri. E il finale è una granata in trincea: «Se usano la questione delle ferie arretrate per contestare la riduzione degli stipendi, beh, potrei aprire una parentesi. Ma ancora non la apro». Le munizioni non si sprecano.
Mattia Feltri, La Stampa 25/7/2014