Leonardo Bizzaro, la Repubblica 25/7/2014, 25 luglio 2014
K2 – [La verità 60 anni dopo “Compagnoni e Lacedelli erano a corto di ossigeno] – Un’altra giravolta nella storia per la salita italiana al K2, che fra una settimana celebra i suoi sessant’anni
K2 – [La verità 60 anni dopo “Compagnoni e Lacedelli erano a corto di ossigeno] – Un’altra giravolta nella storia per la salita italiana al K2, che fra una settimana celebra i suoi sessant’anni. Un altro pezzo di verità che esce da una foto. Non è un’immagine inedita, è rimasta per decenni sotto gli occhi di tutti, sono gli ultimi fotogrammi del film “Italia K2”, il documentario ufficiale della spedizione del 1954, disponibile pure su Youtube. Ma nessuno ci aveva fatto caso, finora. Ci voleva lo sguardo attento di un documentarista inglese per rendersene conto. Cosa dicono quei pochi secondi traballanti? Che forse Compagnoni e Lacedelli non avevano mentito, quando raccontarono di aver finito l’ossigeno prima di arrivare in vetta, il 31 luglio 1954 alle sei della sera. Apparentemente una cosa di poco conto, per chi non fosse un appassionato di ottomila. E invece no, perché quel particolare, la bombola che esala l’ultimo respiro, gli alpinisti che sentono come una mano che stringe loro il collo, li soffoca, a catena si riverbera sul racconto intero della salita. Potrebbe mettere perfino in discussione un punto fondamentale della versione di Walter Bonatti, per la quale ha lottato mezzo secolo (ma vedremo che non è così). E il libro che faticosamente il Cai era riuscito a pubblicare nel 2007 per chiudere con le polemiche su quell’impresa, “K2 una storia finita”, potrebbe cambiare titolo. La storia potrebbe diventare non finita, o infinita più probabilmente. Le riprese di vetta, effettuate da Compagnoni e Lacedelli con una cinepresa 16 mm a molla, mostrano il panorama del Karakorum, i loro volti sorridenti, le barbe. In terra, sulla neve, i trespoli con le bombole che si sono tolti dalla schiena. In primo piano ne appaiono una rossa e l’altra blu. Nel manifesto del film le bombole sono invece tutte rosse. Questa immagine non appare nelle riprese, è un fotogramma scattato con le macchine tascabili affidate a ogni scalatore e caricate con pellicole in bianco e nero. Per il manifesto la foto è stata “colorizzata”, al grafico l’omogeneità del rosso piaceva di più. Ma a chi si è interessato alla vicenda, come Mick Conefrey, documentarista della Bbc, le due tinte dicono altro. Suggeriscono che lassù non sono arrivate solo le affidabili bombole tedesche blu della Dräger di Lubecca, ma anche quelle italiane della Dalmine, rosse, sulle quali si era deciso di non far conto per l’assalto finale. Nulla di personale, ma Erich Abram, l’alpinista di Bolzano che era il responsabile del deposito di “aria” si era reso conto che perdevano troppo. Mentre quelle tedesche da 220 atmosfere potevano scendere al massimo a 200, le Dalmine si svuotavano fin quasi a metà. Colpa della valvola, semplificata forse troppo per evitare che si ghiacciasse e risparmiare sul peso. L’ultimo giorno dunque Compagnoni e Lacedelli non si sono trascinati verso la cima con tre bombole piene che avrebbero assicurato dodici ore di sicurezza. Quante fossero le rosse è impossibile dirlo, i fotogrammi non permettono di saperlo. Sulla neve della vetta ce ne sono appena due, una a testa, le altre — ognuno si era caricato un set di tre cilindri, per un totale di 19 chili circa — erano state in precedenza abbandonate nella salita, appena vuote. Probabile però che l’ossigeno non sia bastato fino alla vetta, come i due vincitori del K2 dissero fin dall’inizio. Qual era il punto? A portare le bombole fin oltre gli ottomila metri era stato il giorno precedente Walter Bonatti con l’hunza Mahdi. Era l’unico, a parte Compagnoni e Lacedelli che si stavano preparando per la vetta, ad avere la forza di farlo. L’accordo era di trovarsi al campo 9, l’ultimo: Walter avrebbe consegnato il “tesoro” e se ne sarebbe sceso. Ma quella sera i due non si fecero trovare, fu Compagnoni a voler spostare la tenda, a non rispondere ai richiami disperati del giovane alpinista che assieme a Mahdi si ritrovò a passare una drammatica notte a 8.100 metri. Temevano che Bonatti, giovane, in forma, dal fisico perfetto, volesse affiancarli o addirittura sostituirli nel tentativo finale. Compagnoni arrivò a dichiarare, in una famosa intervista del 1964 alla Nuova Gazzetta del Popolo , che nella notte Bonatti avrebbe aperto le bombole per respirare ossigeno, nel tentativo di resistere al gelo e all’aria rarefatta delle altezze. Impossibile, perché senza i respiratori — che avevano con sé solo i due scalatori diretti verso la cima — il gas si sarebbe subito disperso. Fu querelato e perse la causa. L’accusa dell’ossigeno “succhiato” avrebbe spiegato l’esaurirsi dell’ossigeno prima della fine. E Bonatti per questo scrisse più volte che questa fu la «menzogna di base» della storia del K2. Ma nessuno dei tre aveva pensato a una spiegazione molto più semplice. Conefrey, che dopo aver girato un documentario sulla vicenda del K2 — lo scorso anno è stato tradotto anche in Italia da Corbaccio il suo eccellente “Everest 1953”, che ricostruisce la salita inglese di Hillary e Tenzing — sta ora terminando “Ghosts of K2” proprio sulle vicende contorte della vittoria italiana del 1954, non vuole rovesciare la storia con la sua scoperta: «Io mi limito a pensare che Compagnoni e Lacedelli non abbiano mentito sul particolare dell’ossigeno. Quei giorni sono stati un po’ caotici, loro non avevano fatto prove a sufficienza con i respiratori e si sono trovati nei guai, tutto qui. Certo Bonatti non ha colpe». Poi, lui che abita a Oxford ma conosce bene l’Italia, sorride e non dice quel che vorrebbe dire: «Ci fossero stati gli inglesi, tutta quella confusione non sarebbe accaduta». Leonardo Bizzaro, la Repubblica 25/7/2014