Vittorio Zucconi, la Repubblica 25/7/2014, 25 luglio 2014
IL LUNGO SUPPLIZIO DI JOE, DUE ORE DI AGONIA SUL LETTINO DEL BOIA
Joe Wood visse 55 anni da vivo e due ore da morto. Non più il morto che cammina, ma il morto che vive per 117 minuti si alza nell’”horror film” del patibolo americano. Per la terza volta in sei mesi, questa volta in Arizona, la fiction dell’esecuzione dolce si squarcia e ci rivela il volto di Joseph Wood, del morto che non riusciva a morire. Wood era stato condannato al patibolo nel 1989, dunque quindici anni or sono, per avere strangolato la fidanzata Debra Dietz e il padre di lei, Eugene. Alle 13 e 45 di giovedì, ora di Florence, Arizona, era stato imbragato alla barella del supplizio. Le guardie carcerarie, sommariamente addestrate come infermieri essendo proibito a professionisti della sanità partecipare alle esecuzioni, gli avevano infilato gli aghi nel braccio alle 13 e 50. Le tende erano state aperte per permettere ai testimoni richiesti dalla legge, avvocati difensori, rappresentanti della Pubblica Accusa, parenti della due vittime e giornalisti estratti a sorte fra chi ne aveva fatto richieste, di assistere dietro le finestre.
Alle 13 e 52 i due boia avevano premuto gli stantuffi per pompare un cocktail segreto di medicinali che lo Stato dell’Arizona rifiuta di specificare, ma che tutti sanno essere midazolam, un potente sedativo della famiglia del Valium e idromorfone, un oppiode derivato dalla morfina. Come, in quale dosaggio, in quale proporzione i due farmaci — nessuno dei quali è di per sé letale — siano mescolati, e da chi, è un segreto, una formula che gli Stati americani rifiutano di rivelare.
Alle 13 e 57 Wood appariva immobile, completamente sedato, forse morto. Ma alle 14 e 02, per l’orrore dei testimoni e l’imbarazzo del personale del penitenziario, il suo petto si gonfiava violentemente. Tentava di respirare. I primi rantoli uscivano dalle sua labbra. Il respiro, che la morfina e la benzodiazepina in dosi massicce avrebbero dovuto bloccare, continuava, trasformandosi in boccheggiamenti nel classico effetto del «pesce fuor d’acqua». Alle 14 e 05, trascorsi quei dieci minuti che dovrebbero, secondo la teoria, garantire il trapasso, gli avvocati di Wood si fiondavano al fax per spedire un messaggio scritto a mano su un foglio giallo di bloc notes legale al numero sempre attivo della Corte Suprema a Washington.
«È vivo! L’esecuzione è fallita! ». Chiedevano la immediata sospensione e la rianimazione. Dalla Corte Suprema, nessuna risposta, che equivale a un rifiuto. E dopo 600 rantoli agonici, contati diligentemente da Astrid Galván, cronista della Associated Press , rigurgiti, boccheggiamenti, il corpo di Wood lo zombie, del morto vivente, misericordiosamente si placava. Alle 15 e 49 minuti, il medico di servizio, chiamato dal direttore del penitenziario, lo dichiarava morto. Aveva 55 anni, dei quali 15 consumati nell’anticamera del patibolo e 117 minuti vissuti da morto. «Tutto perfettamente legale e secondo le procedure» avrebbe spiegato subito dopo la governatrice repubblicana dell’Arizona, la settantenne signora Janice “Jan” Brewer, che aveva respinto ogni richiesta di commutazione o rinvio della pena: «Non ha sofferto». «Comunque ha sofferto meno di quanto avessero sofferto Debra e mio padre quindici anni or sono», risponderà ai giornalisti Jean Dietz, sorella e figlia delle vittime di Wood. «Ma quali rantoli e gorgoglii e boccheggiamenti. Quel criminale semplicemente ronfava».
Dorme, profondamente, anche la coscienza di quei trentadue stati americani su cinquanta, soprattutto nel Sud e del Sud Ovest, come il Texas, l’Arizona, la Virginia, la Florida, l’Oklahoma, il Mississippi, che ancora entusiasticamente uccidono nel nome della legge. Non l’hanno risvegliata completamente neppure i casi di Dennis McGuire, che in Ohio impiegò 25 minuti di agonia per morire con la stessa miscela usata ieri in Arizona, fino a sanguinare dal naso e dalla bocca per la fame d’aria insaziata. Non è stata scossa dagli spasmi interminabili di Clayton Lockett, in Oklahoma, in maggio. Lockett, al quale gli aghi furono inseriti nelle gambe e non nel braccio, morì dopo essersi e violentemente agitato contro le cinghie, inarcando la schiena, le gambe, le braccia, mentre avrebbe dovuto sprofondare nel sonno artificiale più plumbeo. Impiegò 43 minuti prima che un infarto del miocardio pietosamente lo uccidesse. Non la turbò l’urlo di Michael Wilson che dalla barella, pochi secondi dopo la scarica letale di tranquillanti, in Virginia, sbigottì i testimoni riavendosi e gridando: «Brucio, mio Dio brucio, mi sento come se fossi in fiamme».
Il dubbio, ancora minuscolo, che questa sperimentazione di cocktail “in corpore vili”, nel corpo di cavie umane giudicate senza valore, raggiunga quel livello di «punizione crudele e inusuale » che la Costituzione esplicitamente proibisce ha sfiorato la Corte Suprema in maggio. Fu allora, di fronte al caso di Russell Bucklew, un condannato a morte nel Missouri afflitto da una rara patologia chiamata “emangioma cavernoso” che lo avrebbe potuto soffocare nel proprio sangue, che i nove “Supremes” gli concessero sei mesi per ulteriori test medici. Ma la raffica di orrori che stanno andando in scena nella camere della morte è destinata a continuare. Soltanto in Arizona ci sono 117 maschi e due femmine nella sala d’attesa per la “death chamber” di Florence, il paese dove sorge il penitenziario per le esecuzioni. Gli Stati che ancora vogliono la vendetta legalizzata non riescono più a usare i primi ingredienti scelti per le esecuzioni, creati con miscele di pentothal anestetico, di curaro paralizzante e cianuro soffocante. Le farmaceutiche europee non possono più esportarlo, per l’embargo imposto contro le nazioni che ancora applicano la pena di morte. Il Propofol, potente ipnotico e anestetico chirurgico scarseggia anche nelle camere operatorie e gli ospedali non lo cedono sicuramente ai boia.
Lentamente, ma sensibilmente, la popolarità della pena capitale scende, e dai picchi del 78 per cento alla fine degli anni 90 è tornata, dice la Gallup, al 55 per cento. Verranno anche i titoli di coda in questo film dell’orrore paradossale e rivelatore: più ci si sforza di rendere “umana” la morte di Stato, più “disumana” si dimostra.
Vittorio Zucconi