Paolo Berizzi, la Repubblica 25/7/2014, 25 luglio 2014
NELL’HANGAR DI GHIACCIO DI HILVERSUM
“L’hangar di ghiaccio” ha muri di cemento armato e pareti rivestite da lamiera di zinco. Visto da fuori sembra un normale garage per aerei. Sorge nel penultimo blocco di edifici sul lato sudest della Korporaal van Oudheusden, la base militare trasformata nell’anticamera di un cimitero dei cieli. I boschi verdissimi di Hilversum e lì in mezzo, mimetizzato dal tetto a capanna, c’è il macabro lazzaretto dei 193 olandesi «caduti in guerra» mentre volavano verso Kuala Lumpur sul Boeing della Malaysia Air Lines.
Per ricomporre e identificare i corpi dei martiri riportati a casa a pezzi e a scaglioni (altri 60 ieri pomeriggio, stesso protocollo con cerimonia d’onore sulla pista dell’aeroporto di Eindhoven) hanno costruito un «hangar di ghiaccio». L’hanno chiamato così perché è proprio un hangar ed è qui dentro, in questo gelido inferno terreno, che le salme vengono sistemate. Una a una. Temperatura tra i meno 4 e i meno 10 gradi per evitare la decomposizione. «E’ il miglior luogo che avevamo per potere accogliere un così alto numero di salme e identificarle», spiega un medico olandese, uno dei professionisti, sono una ventina, ai quali è stato affidato un compito senza precedenti nella storia dei Paesi Bassi. E’ una squadra composta da medici legali (per le autopsie), genetisti, odontologi forensi. La maggior parte viene da Amsterdam, 30 chilometri da qui.
Mano a mano che le bare arrivano nella base di Hilversum (sono già un centinaio tra le 40 rimpatriate mercoledì e le 60 giunte ieri), militari e addetti sanitari le stivano nell’hangar di ghiaccio. Poi inizia la dolorosa catena dell’identificazione. Funziona così. Dai corpi viene estratto un frammento di tessuto, il campione è conservato in provetta in celle a meno 20 gradi: e quindi comparato. Con che cosa? Qui entrano in gioco familiari e parenti. Va in scena in questi giorni, e chissà fino a quando, un continuo pellegrinaggio di genitori, figli, mogli, mariti, fratelli delle 193 vittime. Si presentano per il supplizio del test del DNA; portano oggetti di uso quotidiano — rasoi, spazzolini, lime — utilizzati da chi ha perso la vita nell’attentato ucraino. «Chiediamo di fornirci anche indicazioni utili — spiega il medico — . Un tatuaggio, una cicatrice, un neo, una caratteristica fisica può essere decisiva per trovare l’incastro». Dice proprio così: l’incastro. Perché «la metà dei cadaveri sono “depezzati”». Non serve tradurre il linguaggio tecnico. Si può solo per un attimo immaginare. Non si tratta semplicemente, ammesso lo sia, di attribuire un DNA a un singolo corpo intatto: bisogna individuare la «targa» biologica di parti umane che poi, come in un puzzle, vanno riaggregate. Sperando di trovare “l’incastro”.
«L’aspetto più delicato è la gestione dell’emotività dei parenti — ricorda il genetista Marzio Capra, ex Ris, una lunga scia di casi tra cui il disastro aereo di Linate (118 vittime nel 2001) — d’altronde sono l’unica strada che hai per arrivare a un risultato ». Ogni salma giunta da Kharhiv è accompagnata da una cartella: c’è un numero, e c’è il punto esatto del ritrovamento di quello che è stato possibile recuperare. La priorità viene data ai corpi più facilmente riconoscibili. Seguono i casi più complessi.
«Non c’è un olandese che non conosca qualcuno che conosce almeno un parente delle vittime », dice il premier Mark Rutte. Vuole risposte immediate il governo olandese: e non le chiede solo a Mosca e a Kiev. Interroga anche la stessa scienza. Nella base militare si lavora si per ricomporre le salme e restituirle alle famiglie. Ma anche per trovare «prove scientifiche» da sbattere sotto il naso di chi dovrà rispondere dell’attentato al Boeing malese. Una richiesta esplicita giunta dal primo ministro e anche dal re Willem-Alexander. «Analizzando le ferite dei cadaveri cerchiamo tracce che permettano di ricostruire la dinamica e la provenienza dell’attacco — ragiona il medico di stanza alla Korporaal van Oudheusden —. Un frammento di ferro, la sua composizione, possono rivelare molto. E’ come estrarre un dardo da un corpo ferito...».
Fuori dalla base militare sventolano le bandiere a mezz’asta delle 17 nazioni che hanno perso i loro cittadini nel disastro (nel conteggio aggiornato si tiene conto della doppia nazionalità di alcune vittime). Un musicista improvvisa al clarinetto le note di “The Last Post”, l’inno funebre per i morti caduti in guerra.
Paolo Berizzi, la Repubblica 25/7/2014