Leonardo Clausi, l’Espresso 25/7/2014, 25 luglio 2014
DICE GILBERT, CONFERMA GEORGE
Non l’avranno mai, Gilbert & George, la loro statua al museo delle Cere. Non ce n’è bisogno: sono già loro stessi di cera, due "sculture ambulanti", come si definivano nel 1969, dagli automatismi ormai talmente coreografati da risultare perfettamente naturali. La coppia più provocatoria dell’arte inglese ha appena tappezzato le immense pareti della più bella galleria commerciale di Londra, la White Cube di Bermondsey, con le loro "Scapegoating Pictures": una sessantina di giganteschi pannelli fotografici che ricordano le vetrate di una chiesa. La loro è un’arte religiosamente profana, che prende instancabilmente di mira le convenzioni borghesi della società come quelle liberal dei loro colleghi e che scaturisce da un’osservazione meticolosa, archivistica, psicogeografica del tessuto urbano dell’East End londinese. I loro temi cardine restano religione e omoerotismo (una definizione che però loro rifiutano, preferendo "erotismo"), pur rivisitati per il XXI Secolo. Ma la scatologia, cioè i fluidi corporei che in passato la facevano da padrone nelle loro opere, lasciano ora spazio alle più miti bombolette di gas esilarante, il cosiddetto "hippy crack" che i giovani clubbers di Brick Lane inalano nelle loro dissipazioni notturne. Lo shock rimane vivo però appena i due aprono bocca: nelle loro parole sul multiculturalismo e sul suo presunto fallimento, parallelo al diffondersi del fondamentalismo islamico nella popolazione asiatica della Londra che amano. Le oscenità un tempo dirette al cristianesimo si sono allargate ora all’Islam radicale. Dunque le prime donne che compaiono nelle loro opere hanno il burka, inframmezzate da slogan come "infibulate un imam", "scopate un parroco", "masturbate un giudice" e via poetando. Poco prima degli ultimi ritocchi all’allestimento ci hanno concesso un colloquio, che li ha visti sempre rigorosamente "nella parte". Gilbert, di origine tirolese, dei due è il più puntiglioso e parla con un bizzarro accento italotedesco; George ha un tono suadente e "upper class". La loro è una straordinaria vita artistica in unisono: parlano come una persona sola, senza ombra di sovrapposizioni o divergenze.
Una mostra davvero imponente, siete incredibilmente prolifici.
GILBERT: «E facciamo tutto da soli. Ci sono volute diecimila fotografie per realizzare questi "pictures". Ogni volta che lavoriamo siamo molto concentrati e organizzati. Non c’è niente di più frustrante una volta finito che dover aspettare l’allestimento per poterli finalmente vedere esposti».
GEORGE: «Nessun altro avrebbe fatto queste immagini se non le avessimo fatte noi».
Sono gli ultimi sviluppi del vostro incessante dialogo con l’East End?
GILBERT: «Religione, sessualità, comportamento… La nostra arte parla di quello che ci succede attorno. Queste nubi religiose che ci si addensano sul capo, nel mezzo dell’East End di Londra dove ormai vige la legge Shari’a!».
Ma è anche una parte di Londra dove hanno sempre trovato rifugio minoranze, etniche o religiose che fossero…
GEORGE: «E gli artisti! Tutto quello che accade nell’East End accade poi nel resto del mondo».
GILBERT: «Siamo in grado di leggere i primi segni di quello che sta per accadere perché sono già tutti lì. Basta saper guardare».
GEORGE: «Negli anni ’80 facemmo un quadro intitolato "Mullah" e tutti a chiederci cosa volesse dire. Poi venne l’11 settembre».
GILBERT: «Venti, trent’anni fa la parola religione quasi non esisteva nel lessico comune. Oggi è sulla bocca di tutti, costantemente. Naturalmente non siamo credenti, odiamo tutte le religioni. Sono una montagna di bugie».
Dio è un’invenzione umana, come insegnava Feuerbach.
GILBERT: «Per terrorizzarci».
Vi definireste degli umanisti?
GEORGE: «Umanisti, sì, libertini. In realtà non abbiamo niente contro la religione. È Dio il problema».
GILBERT: «È la libertà dell’individuo che cambia il mondo, non la religione con le sue parole scolpite nella pietra. L’artista, il creatore, il poeta è libero di cambiare idea e di guardare al mondo ogni volta in modo diverso. Sono gli artisti a dettare quel che succede, e perfino la Chiesa è costretta a cambiare. Adesso anche per gli anglicani le donne possono diventare vescovo per esempio, è una cosa assolutamente straordinaria!»
GEORGE: «La chiesa è trascinata nel futuro, recalcitrante, urlante. La stessa cosa vale per i governi, che promulgarono leggi soltanto per evitare che la gente smetta di votarli».
Ma alla fine non siete stati capiti? Non era meglio rimanere costantemente incompresi?
GILBERT: «Mi trovi un critico d’arte in Inghilterra a cui piacciamo».
GEORGE: «Ma al pubblico, invece, il nostro lavoro piace. Ieri per strada qui vicino c’erano due giovani operai su un’impalcatura e uno dice all’altro (imitando l’accento cockney): "E chi sono quei due?" E l’altro: "Sono G&G. Hanno una mostra che apre tra poco alla White Cube!" Questa è arte per tutti!»
Londra sta attirando un’enorme quantità di capitali e di forza lavoro, i prezzi stanno salendo, la gentrification avanza. Che influenza ha sul vostro lavoro?
GEORGE: «È cambiata enormemente dal 1969, quando vi arrivammo. Siamo stati una piccola parte di quel cambiamento, lo abbiamo riflesso. La cosa migliore accaduta negli ultimi anni è stata il crollo della cultura hippy: oggi i giovani vogliono fare, sono determinati, aprono nuove attività, un bar, un ristorante. Un tempo non era così».
GILBERT: «Inventano questo, disegnano quell’altro. È straordinario! Tutte persone che rigettano l’idea di collettivismo».
Voi siete tutti per l’individuo, piuttosto che la società. Molto thatcheriani.
GEORGE: «Lei fece tanto per l’arte. E poi non vogliamo dipendere dallo Stato. Vogliamo essere autonomi e indipendenti, siamo spiriti liberi».
GILBERT: «Siamo invece molto socialisti nel modo in cui vogliamo che la nostra arte sia accessibile a tutti. Il nostro motto è "Arte per tutti" perché sappiamo che il mercato dell’arte per secoli è stato nelle mani o dei ricchi o della chiesa. Vogliamo che tutti vedano quello che stiamo cercando di fare in grandi mostre che dominino lo spettatore».
Negli anni Settanta Londra era artisticamente molto provinciale.
GEORGE: «Vero, sebbene avesse uno come Francis Bacon, che per noi è un gigante assoluto».
GILBERT: «Rifiutavamo il formalismo. Nel 1969 facemmo di noi stessi il centro della nostra arte e questo cambiò tutto perché eravamo vivi, avevamo sentimenti come gioia e dolore».
GEORGE: «Piacciamo al pubblico perché sentono che non ci consideriamo superiori. Negli anni Settanta tutti i nostri contemporanei avevano una grande supponenza rispetto alla gente comune. Noi ci innamorammo di chi guardava l’arte, loro dell’Arte».
Questo vostro vivere da opere d’arte, da "sculture ambulanti" richiede un’immensa dedizione formale.
GEORGE: «Abbiamo un’assai robusta determinazione».
GILBERT: «È molto semplice: dobbiamo vincere. Tutto qui».
Dunque quel che vedete attorno a voi vi conforta?
GEORGE: «Siamo sempre stati ottimisti, mai critici. Tutti i nostri contemporanei erano contro la chiesa o contro lo stato, contro l’America, contro la bomba atomica o contro Bush. Noi siamo artisti pro. Quando ci chiedono di firmare una petizione, di solito rispondiamo: solo petizioni per qualcosa!»
Eppure, per quanto ai Tories piacerebbe sapervi dalla loro parte non potreste mai definirvi tali fino in fondo. O no?
GEORGE: «Nel mondo dell’arte dichiararsi conservatori è la cosa più anarchica che ci sia, soprattutto in occidente».
Vi divertite a flagellare gli ipocriti della sinistra progressista.
GEORGE: «Vogliamo che la nostra arte tiri fuori il bacchettone nel liberal e il liberal nel bacchettone».
È anche per questo che siete così emarginati nel mondo dell’arte?
GEORGE: «Pur non essendo socialisti non potrebbe esserci un’arte più socialistica della nostra. Noi diciamo la verità. La verità è socialistica. Vedrà la reazione dei critici appena vedono questi nuovi lavori. "Per anni ci avete dato addosso perché attaccavamo il cristianesimo e ci criticavate perché non c’erano donne nei nostri quadri. Adesso siete contenti?"».
Non credo. "Infibulate un imam" non è esattamente soft. Ci sarà una dura reazione.
GEORGE: «I nostri sono tutti temi che non passano».
GILBERT: «Resteranno per sempre. La Shari’a sta impadronendosi del mondo e non si fermerà. L’East End ne è piena. Ci sono volute centinaia d’anni per liberarci dalla nefasta influenza di Roma come del protestantesimo. E ora siamo di fronte a questa nuova bolla chiamata "Dio" con cui l’Islam ci vuole portare via le libertà faticosamente conquistate».
Ma non sono due mondi costretti in uno spazio limitato pur appartenendo a due ordini differenti di sviluppo storico?
GEORGE: «Come artisti, abbiamo una responsabilità. Non possiamo solo fare opere che piacciano a noi. Quindici anni fa raccoglievamo adesivi distribuiti dagli estremisti del nostro quartiere che dicevano in inglese: "Sapete che nelle scuole si insegna il cristianesimo, l’ateismo, l’omosessualità e l’uso di droghe?". Nessuno faceva obiezioni: immagini cosa sarebbe successo se qualcuno avesse diffuso materiale che accusava gli islamici di voler fare il contrario!».
Dunque il politically correct è un concetto marcio per voi.
GILBERT: «Ricordo lo scalpore dei nostri primi quadri a soggetto gay: ebbene, oggi tutto il pianeta è anti-gay a parte piccole zone del Nordamerica e dell’Europa. Ovunque altrove si incita alla lapidazione dei gay».
Eppure nel cosiddetto Occidente sviluppato la tendenza è opposta e si sono fatte molte conquiste.
GILBERT: «In pochissimi posti».
Perfino in Italia le cose stanno muovendosi nonostante il Vaticano.
GEORGE: «Tutti i paesi latini sono omofobi. Ogni giorno uccidono una persona».
GILBERT: «La Russia ne è piena»
GEORGE: «E i polacchi? Quando cominciarono ad arrivare a Londra dieci anni, fa i parroci dovettero dirgli di non ammazzare i gay, che qui non si usava».
GILBERT: «L’islam è omofobico, il giudaismo è omofobico, la Cina, l’India e l’Africa sono del tutto anti-gay».
Ma non è troppo riduttivo riservare gli sforzi della vostra arte verso una maggiore tolleranza nei confronti di una cosiddetta minoranza?
GILBERT: «Viviamo in una cosmologia nella quale siamo tutti connessi, facciamo parte dello stesso tessuto. Ed è questo che ci interessa artisticamente».
Una curiosità: dove trovate i vostri abiti dal taglio così perfetto?
GILBERT: «Li hanno fatti dei ragazzi working class».
Dunque non vengono da Savile Row.
GEORGE: «Assolutamente no».
GILBERT: «Tagliati e cuciti da gente povera».
GEORGE: «Se uno mettesse in un computer tutte le fogge di abiti tra il XIX e il XX Secolo per trovare una sintesi assoluta, probabilmente uscirebbero fuori questi completi».
Una ricerca del neutro, dell’equilibrio assoluto?
GILBERT & GEORGE: «Della normalità».
GEORGE: «È fantastico essere bizzarri, ma solo se si è allo stesso tempo normali. Se tutti fossero bizzarri essere normali sarebbe terribilmente noioso. Ma essere entrambe le cose insieme fa molto bene al cervello».
Tutte le sere andate a mangiare da Mangal 2, un ristorante turco: è ancora buona la cucina?
GILBERT: «Sì, anche se il ristorante è ormai pieno di ragazzine urlanti».
GEORGE: «Di gente che non viene a cenare, ma a festeggiare».
Oltre che a vedere voi.
GEORGE: «Si sentono solo due cose ad altissimo volume: "Davveeeero?" e l’altra è "Oddio!". Intere conversazioni basate su queste due frasi».
Credete che l’integralismo islamico stia rovinando la festa della gentrificazione dell’East end?
GILBERT: «Non necessariamente, ma sta accadendo e dobbiamo documentarlo. Inutile cercare di fermarlo».
GEORGE: «È molto meglio esserci in mezzo che leggerne comodamente dal proprio ritiro in campagna nel Suffolk. Non abbiamo mai pensato di lasciare Londra, nemmeno per un attimo».