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 2014  luglio 25 Venerdì calendario

DAGLI EMIRATI AL QATAR FINO AL SUDAN, ECCO LA «SANTA INQUISIZIONE» ARABA

Apostasia è una parola antica, che dal greco è passata al latino, e sta per «defezione, distacco». Fino agli inizi del XIX secolo, era uno dei «reati» principali perseguiti dalla Santa Inquisizione. L’inquisitore novizio, nel momento in cui prestava giuramento ed entrava in servizio, si impegnava a combattere «la depravazione eretica e l’apostasia». Il giuramento gli conferiva «potere e facoltà di indagare su ogni persona, uomo o donna, viva o morta, assente o presente, di qualsiasi stato o condizione che risultasse colpevole, sospetta o accusata del crimine di apostasia e di eresia, e su tutti i fautori, difensori e favoreggiatori delle medesime». Il diritto canonico specificava la differenza tra «eresia» («abbandono parziale della fede») e apostasia («abbandono totale della fede da parte di un battezzato, manifestato esteriormente in modi non equivoci e con la volontà e coscienza di abbandonarla»). 200 anni fa, con la fine della Santa Inquisizione, nel mondo cattolico nessuno è stato più arrestato per apostasia. In parte dell’Islam invece l’apostasia è ancora una colpa che comporta la condanna a morte. Riassumendo i dati contenuti nel «Rapporto 2014 di Nessuno Tocchi Caino sulla Pena di Morte nel Mondo», la situazione è chiara: «In alcuni Paesi islamici, convertire dall’Islam ad altra religione o rinunciare all’Islam oppure offendere il profeta Maometto, altri profeti o le sacre scritture è considerato apostasia ed è tecnicamente un reato capitale». Citando un rapporto internazionale del 2013, Nessuno tocchi Caino ricorda che il «reato» di apostasia è punito con la morte in 12 Paesi musulmani: Afghanistan, Iran, Malesia, Maldive, Mauritania, Nigeria (solo nei dodici Stati settentrionali a maggioranza musulmana), Qatar, Arabia Saudita, Somalia, Sudan, Emirati Arabi Uniti e Yemen.

In altri quattro Stati esecuzioni sommarie per «reati» legati alla religione vengono attuate da gruppi estremisti islamici: Al-Shabaab in Somalia; Boko Haram in Nigeria; i Talebani in Afghanistan; il gruppo jihadista sunnita Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL) in Siria. Nel 2013 e nei primi mesi del 2014, condanne a morte per apostasia, blasfemia o stregoneria sono state comminate con certezza in Arabia Saudita, Iran, Pakistan e Sudan. In Arabia Saudita esiste una struttura apposita, la Commissione per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, che reprime «apostasia, blasfemia o stregoneria», reati separati da linee di demarcazione poco chiare (almeno agli occhi degli osservatori occidentali). Sembra che siano dozzine ogni anno le persone arrestate in Arabia Saudita per «pratiche politeistiche che causano instabilità religiosa e sociale nel Paese». In Iran, per i musulmani è illegale convertirsi al Cristianesimo, mentre ai cristiani è permesso convertirsi all’Islam. Anche in Iran l’unica punizione possibile per l’apostasia è la pena di morte, che in questo paese (e non è una cosa rara) si applica anche ai minorenni. La stampa iraniana ha riportato il caso di Rouhollah Tavana, un ingegnere di 35 anni condannato a morte per aver insultato Maometto. Tavana ha sostenuto di aver usato parole sbagliate quando era ubriaco, ma il tribunale, pur riconoscendo una certa alterazione, ha stabilito che comunque la quantità di alcol consumato non era tale da giustificare la sua condotta oltraggiosa.

In Pakistan la legge contro la blasfemia è stata introdotta nel 1985 e da allora, secondo le notizie riportate dai media pachistani, molte centinaia di persone sono state incriminate. Nessuno però è stato giustiziato e molte condanne per blasfemia sono state poi annullate in appello. Ma decine di persone in attesa del processo o assolte dalle accuse sono state massacrate da fanatici religiosi in carcere o nelle stazioni di polizia. La repressione però potrebbe iniziare a farsi più dura: il 4 dicembre 2013, la Corte Federale Islamica ha disposto che la blasfemia è un reato talmente grave che non può più essere punito con l’ergastolo, ma solo con la condanna a morte. La stampa ha seguito con una certa attenzione le condanne per apostasia di una donna, Asia Bibi, di due uomini, Riaz Ahmed e Ijaz Ahmed, che nel 2011 avevano sostenuto di aver avuto delle visioni religiose che però le autorità hanno giudicato sconvenienti. Il 23 gennaio 2014, un tribunale di Rawalpindi ha condannato a morte Mohammad Asghar, un cittadino britannico di 65 anni, che sembra si sia autodefinito «profeta». L’avvocato della difesa aveva sostenuto che Asghar era affetto da disturbi mentali, ma tale spiegazione non è stata considerata sufficiente dal tribunale. Il 27 marzo 2014, un tribunale pakistano ha condannato a morte Sawan Masih, 35 anni, cristiano, per blasfemia. Nel marzo 2013, un amico musulmano del condannato aveva detto che durante una discussione tra loro, Masih aveva insultato il Profeta Maometto. Due giorni dopo, una folla inferocita aveva invaso Joseph Colony, un quartiere cristiano nella città di Lahore, dando alle fiamme più di 170 case e due chiese. Alcuni ipotizzano che tutta la vicenda sia stata orchestrata da alcuni uomini d’affari che avrebbero usato l’accusa di blasfemia per cacciare i cristiani dal quartiere in modo che potesse essere espropriato per uso industriale. Il 5 aprile 2014, due cristiani pakistani sono stati arrestati dopo una lite con l’imam di una moschea, con l’accusa di aver offeso il profeta Maometto. Da Sudan e Siria, paesi da tempo attraversati dalla guerra, mancano notizie attendibili aggiornate. In Siria, paese che sotto la dittatura degli Assad ha vissuto in un islam moderato, da quando è scoppiata la guerra civile, molte esecuzioni sommarie sono state attribuite agli uomini del «califfato dell’Isil». Il 9 giugno 2013, ad Aleppo hanno fucilato di fronte ai genitori un ragazzo di 15 anni accusato di blasfemia, Mohammad Qataa. Il ragazzo era un venditore ambulante e durante una lite con un avventore è stato sentito dire: «Anche se il profeta Maometto scendesse giù dal cielo, non diventerei un credente». L’8 dicembre 2013, l’Isil ha giustiziato Ibrahim Qassum, un benzinaio. I combattenti lamentavano la cattiva qualità del carburante e l’uomo avrebbe risposto: «Come faccio a saperlo? Chi sono io, il Dio del carburante?».