Andrea Riccardi, Corriere della Sera 25/7/2014, 25 luglio 2014
IL CONTINENTE DELLE MILLE CHIESE DOVE IL CATTOLICESIMO È MARGINALE
All’aeroporto di Johannesburg, incontro un distinto signore da me conosciuto come ministro del Malawi. Mi rivela: «Ho smesso la politica: ho fondato una Chiesa che va molto bene». L’Africa è così: le Chiese nascono come funghi. In Malawi, crescono comunità neopentecostali e di guarigione, nonostante i cattolici siano forti: il 20% dei 12 milioni di abitanti. La gente (anche cattolica) nei momenti difficili va a pregare con le «sette», perché lì la preghiera appare più intensa e mirata. Non avviene solo in Malawi ma in tutti i Paesi africani. La Chiesa cattolica è sfidata in profondità. Eppure la crescita cattolica è stata impetuosa nell’Africa novecentesca come in nessun continente: la Chiesa è passata dai due milioni di fedeli del 1900 ai 143 attuali. Nell’orizzonte della modernizzazione coloniale si collocava come la religione «moderna» e di riferimento. E’ rimasta così anche con la decolonizzazione, quando il Vaticano ha africanizzato gli episcopati e favorito le indipendenze, senza nostalgia per i poteri coloniali. Negli anni Novanta, molti vescovi cattolici (con il consenso generale) hanno guidato le transizioni dalle dittature alla democrazia.
Qualcosa è cambiato. Anche se le statistiche danno ancora in crescita i cattolici e le vocazioni religiose, il cattolicesimo africano diventa più marginale e il suo spazio nella società è eroso. Ha meriti storici, ma conta pure clamorosi fallimenti come il genocidio del 1994 nel Ruanda tanto cattolico. Il mondo della globalizzazione cambia tante mentalità africane e orienta la domanda religiosa. La crescita delle comunità neoprotestanti e neopentecostali ha un’impennata sul finire degli anni Ottanta, anche se le radici sono nei decenni precedenti. Chi frequenta l’Africa vede costruire nuove chiese delle più varie denominazioni. Spesso al centro c’è la preghiera di guarigione. Le televisioni trasmettono i messaggi dei predicatori. In Congo, su 50 canali privati 35 appartengono a «Chiese del risveglio». In Mozambico, la più importante televisione è della brasiliana Igreja du Reino de Deus, diffusa anche in Angola. Nel cuore della capitale mozambicana, un enorme palazzo di vetro ospita uffici e riunioni della Chiesa. Vi entro di sabato: un pastore dai toni accesi ammonisce un’assemblea di donne. Dietro a lui campeggia una gigantografia del tempio di Gerusalemme che la Chiesa sta realizzando a San Paolo del Brasile. In confronto la vecchia cattedrale cattolica, opera dei portoghesi, fa figura del vecchio parente povero.
La Igreja du Reino insiste sul valore dell’offerta di denaro per ottenere i beni sperati. E’ la «teologia della prosperità» comune a tante comunità di questo tipo: chi dà, potrà ricevere. Martin Tsala Essomba, fondatore di una comunità in Camerun, trasmette questo messaggio: «Non siamo una Chiesa di poveri! Se non sei ricco dentro di te, tu non sarai mai davvero ricco!». Dotato di radio e televisione, il profeta-predicatore raccomanda la subordinazione al potere civile. Anche l’Igreja du Reino de Deus, durante i disordini di qualche anno fa in Mozambico, affermava che i problemi non vengono dalla società o dallo Stato, ma dall’impurità della persona. Più accomodanti della Chiesa cattolica, le «sette» stabiliscono rapporti con i governi e ottengono riconoscimenti. In Uganda, a Kampala, nel grande stadio coperto del Miracle Center Cathedral da più di 10.000 persone, si vedono spesso autorità governative. Parlano di due milioni di seguaci in Uganda, dove cattolici e anglicani sono forti. Questo mondo miracolistico, così molecolare, rappresenta una sfida per la Chiesa cattolica. La globalizzazione, il consumismo diffuso che esprime l’aspirazione di milioni di africani a uscire dalla povertà, lo spaesamento dell’urbanizzazione e della crisi della cultura rurale favoriscono le religioni della prosperità.
Non mancano le doppie appartenenze e i rapidi passaggi dall’una all’altra comunità. Le diocesi cattoliche africane, da parte loro, faticano a uscire — non tutte certo — dai quadri istituzionali, un po’ rigidi, fortemente controllati da vescovi e preti. Limitato è lo spazio dei laici cattolici, in genere subordinati a ruoli ecclesiastici. Le missionarie e i missionari, portatori di dinamicità transnazionale, sono invecchiati e in crisi per le poche vocazioni. La comunicazione cattolica é impari rispetto a quella delle «sette». Giovanni Paolo II aveva solcato l’Africa, incontrando folle e governanti: esprimeva la forte presenza cattolica. Ora è differente. L’impatto del messaggio «missionario» di papa Francesco è ancora molto debole in Africa, a differenza che altrove. Per la Chiesa è duro accorgersi che le religioni sono sul «mercato» — come un prodotto — e che il cattolicesimo è una tra queste. Così le cifre positive (che ancora registrano una crescita cattolica di numero) non dicono tutta la verità su un cattolicesimo dalle tante fragilità. Sono anche le fragilità della transizione che gli africani — giovani in larga parte — vivono da un punto di vista umano e culturale.