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 2014  luglio 25 Venerdì calendario

CARMELO BENE (RI)APPARE IN LIBRERIA

Le paginette stondate della collezione dei Tascabili Bompiani producono nel lettore un doppio dispiacere quando ad esse capiti di ospitare tre piccole meraviglie a firma di Carmelo Bene, Pinocchio (pagg.110, euro 10), Nostra Signora dei Turchi (pagg. 142, euro 9) e Sono apparso alla Madonna (pagg. 160, euro 9).
Il primo dispiacere riguarda la distanza (con annessa sentenza) che quella stondatura da libro usato ci suggerisce, e che è purtroppo vera: Carmelo Bene non è un autore del nostro tempo. Non fu nemmeno un autentico inattuale, Carmelo, che se la intese con i Deleuze e i Klossovsky - tutti nomi importanti che, come il suo, rischiano oggi la piena dimenticanza, non fosse (forse) per qualche oscuro corso universitario capace di iniziare, grazie all’amore non pagato di un ricercatore/associato, qualche giovane alla bellezza della propria unicità.
L’altro dispiacere è più profondo, e riguarda un certo modo di fare e di pensare la letteratura e i libri (scrittori e editori, dunque), che venticinque-trent’anni fa doveva ancora raccogliere il suo consenso, mentre oggi sarebbe a dire poco inimmaginabile.
Lo disse Gianfranco Contini, anni fa, a Ludovica Ripa di Meana: lo scrittore di oggi è bravo ma gli manca la sana follia dei suoi padri - e lo diceva quando qualche sano folle girava ancora: uomini che iniziavano le loro avventure (letterarie, teatrali, cinematografiche) con il più bello dei corredi: il non aver la minima idea dell’avventura in cui si stavano cacciando.
Signori! In cosa posso esservi inutile? In questa frase leggendaria si riassume alla perfezione un’attitudine artistica morta e sepolta, quella che assimila per sempre Bene a nomi tutti per qualche ragione maledetti, da Artaud a (udite udite) Gabriele D’Annunzio.
Voce deliziatrice capace di restituire il volo (e il plauso) a testi infetti, quasi immondi come La Figlia di Iorio, o di infettare classici intoccabili come Pinocchio, Carmelo bene edificò capolavori con materiale igneo, che solo poi si solidificarono in libri.
Dei tre che ho sott’occhio, Nostra Signora dei Turchi e Pinocchio distanziano di diversi metri il troppo scritto, troppo pensato Sono apparso alla Madonna (che pure annovera diverse meraviglie). Ma i due primi titoli compiono lo strano miracolo di trattenere come in una camera iperbarica tutta la tensione che dominava sia il film che lo spettacolo teatrale.
Ascoltare Carmelo Bene (e lo si può ascoltare ancora, leggendo questi libri) non significava assistere a uno spettacolo: Bene ignorava ogni forma di entertainment. Significava piuttosto precipitare con lui, dentro il precipizio che lui stesso scavava, cadendovi.
Leggete Pinocchio, così uguale al capolavoro collodiano e insieme così indifferente ad esso. Nessun adattamento del romanzo per il teatro, al diavolo gli adattamenti!, piuttosto un precipizio di Bene dentro Pinocchio e di Pinocchio stesso dentro Bene, determinato a salvarne la sostanza tragica da ogni tentazione didascalica ma anche romantica o religiosa.
E dove sarebbe il tragico, in Pinocchio? Ma è naturale: nel suo perverso cammino che lo condurrà, prima della nefasta metamorfosi in «ragazzo perbene», a farsi insegnante egli stesso, salendo in cattedra («addio mascherine») ed evitando definitivamente ogni idea di romanzo di formazione. Pinocchio - come il Malato Immaginario, di cui è parente stretto - cade nel delirio di un riscatto sognato. Eccolo, il tragico.
Ma la sorpresa più bella è Nostra Signora dei Turchi, un magnifico romanzo pieno di humour e di intelligenza, dove il teatro e la narrativa si uniscono in uno sposalizio quasi impossibile (ci volle infatti il cinema per celebrarlo).
Si tratta, qui, di una storia, di un epos, il cui protagonista non è un corpo definito (la corporeità è segnata, sempre di passaggio, e sempre liquida: vino, alcolici, sangue...) e nemmeno un «io» monolitico, incardinato dalle leggi del «sé» e del «super-io», bensì lo scorrere di una voce, e insieme di una memoria di frasi - spesso deliziosamente comuni, frasi fatte - in mezzo a una folla di interlocutori immaginari (ma non irreali, perché l’immaginario è reale).
Il debito nostro verso il nostro immaginario è lo stesso che abbiamo contratto verso la vita e il prossimo. Parlare è sempre parlare a qualcuno, anche se siamo soli, e al tempo stesso non esiste un parlare ad altri che non sia principalmente un parlare a noi stessi.
In questo il teatro è maestro, e Nostra Signora dei Turchi è anche una formidabile riflessione sulla natura del teatro inteso non come espediente ma come esperienza.
Nessuno è stato come Carmelo Bene. Bene non era un uomo di teatro, Bene era egli stesso il teatro. Dalle sue infuocate performance su Dino Campana, o su Dante, capaci di riempire un palazzetto dello sport, alle sue ultime apparizioni romane - un D’annunzio, una rilettura del mito di Achille - snobbate dai più (era già cominciata l’età della tecnica, del «si fa così»), chi sa come il teatro - e l’arte in generale - apra voragini salutari nelle nostre finzioni quotidiane non può non amare Carmelo Bene e serbarne grata memoria, in vita e in morte.