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 2014  luglio 25 Venerdì calendario

SFORBICIATA A MILLE STIPENDI SCAGLIONATA IN QUATTRO ANNI

L’operazione tagli agli stipendi dei dipendenti parlamentari merita un supplemento di attenzione. Non solo per il suo forte carico simbolico ma anche per la sua complessità. Qualunque giudizio si voglia dare, questa è la prima volta che la politica affronta in modo non episodico la ristrutturazione dell’azienda più importante del Paese: il Parlamento, la fabbrica delle leggi. Ed è la prima volta che la politica toglie qualcosa (non poco né troppo e con riguardo) all’alta burocrazia che le è più vicina.
Il terremoto che scuote gli ovattati uffici di Camera e Senato si sta sviluppando lungo due direttrici. La più importante non sta emergendo in questi giorni perché è contenuta nel testo della riforma costituzionale: si tratta di un comma all’articolo 34 che prevede l’unificazione delle due amministrazioni, della Camera e del Senato. Una vera rivoluzione se si riuscirà a portarla a termine perché finalmente la burocrazia parlamentare smetterebbe di scindersi in tanti e inutili doppioni (a partire dagli uffici appalti) per acquistare efficienza e linearità. In questo contesto c’è chi sta lavorando all’eliminazione della grossa distorsione che trasforma le due Camere in pensionifici: il pagamento diretto delle pensioni degli dipendenti. Oggi questa voce è la più alta del bilancio della Camera e del Senato (rispettivamente 236 e 115 milioni) e poiché cresce senza freni assorbe ogni anno preziose risorse a scapito di investimenti e assunzioni.
La ridefinizione del patto di collaborazione fra politica e alta burocrazia passa poi per la riduzione di superstipendi che - all’evidenza - al sesto anno della Grande Crisi e con un Pil anemico sono fuori della grazia del Signore.
UN PIANO CERTOSINO
Su questo fronte le presidenze di Camera e Senato hanno fatto un lavoro certosino preparando una proposta articolata che non usa solo il bastone. Per avere un’idea della difficoltà dell’operazione basti ricordare che il piano prevede il taglio di circa mille stipendi su 2.300. Dunque un’operazione imponente e al tempo stesso delicata perché - contrariamente a quanto previsto per tutti gli altri dipendenti pubblici - i tagli saranno rateizzati nel tempo, in 3 o 4 anni.
Si comincia dunque dall’introduzione anche per i Consiglieri parlamentari, la crema di questa élite burocratica, del tetto di 240.000 euro lordi annui che da maggio è imposto anche al capo della Polizia o al Direttore dell’Agenzia delle Entrate.
Tuttavia si prevede che tutti coloro che già superano questa soglia (e si tratta di circa 130 casi, un fenomeno di massa) possano rientrarvi in tre anni. I soli esclusi dal tetto dovrebbero essere il segretario e i due vicesegretari. Attualmente (le cifre sono indicative) il segretario prende circa 480.000 euro e dovrebbe scendere - sempre gradualmente - a 360 mila.
Secondo: si fissano altri quattro tetti per le altre categorie di dipendenti parlamentari. L’obiettivo è chiaro: riportare le retribuzioni ad un livello compatibile con lo stato dell’economia del Paese evitando l’appiattimento fra le varie professionalità. Come il Messaggero è in grado di anticipare i tetti indicativi sui quali si tratterà restano molto alti poiché grosso modo rispecchiano le retribuzioni di chi oggi ha 25 anni di servizio: si va dai 100/105 mila euro per i commessi (e i mitici barbieri), ai 125/130 mila euro annui per i segretari, ai 170/180 mila euro per i documentaristi o i ragionieri. I lavoratori di queste categorie che superano il tetto si vedranno ridurre gradualmente lo stipendio, quelli che guadagnano di meno non li potranno più superare. In altre parole mentre i Consiglieri ci rimettono 120 mila euro le altre categorie ci dovrebbero perdere (obbligo del condizionale) fra 30 e 60 mila euro all’anno. Tagli impensabili per chi lavora fuori da Montecitorio. Ma impensabili resteranno pure gli stipendi.