Stefania Vitulli, Panorama 24/7/2014, 24 luglio 2014
SE MI DICONO CREATIVO MI OFFENDO
Eugenio Carmi ha fatto della semplicità un culto e non trasgredisce. Ha negli occhi le chiare tracce dell’imperio che più di una volta ha governato le forme, ma le parole per farne gli elogi non sono il fuoco delle sue energie. Riceve in studio, come si addice agli artisti, in un palazzo di Porta Romana a Milano, città dove si è trasferito nel 1971, quando il dolce guscio di Boccadasse non poteva più contenere la dimensione che stava prendendo il suo nome nell’arte italiana. «Mi fanno interviste di continuo. La mia storia è lunga. Mi chiedono tutto e tutte le domande provocano una risposta, perché a 94 anni ho gli stessi interessi che avevo a 30. Vengo in studio ogni mattina con quattro fermate di tram e tre di metropolitana. Se non mi lasciano il posto sto in piedi, perché mi fa bene. Non è il corpo che va tenuto in forma, ma la mente».
Subito il segreto, perché negli occhi del Maestro ce n’è uno e lui è pronto a rivelarlo: «Il segreto è fare ciò che appassiona. Ciò che la mente desidera lo trasmette alle mani e le mani esaltano la creatività. La creatività non è proprietà degli artisti. Lavoravo con gli operai, mi aiutavano a fare i quadri in acciaio, capivano subito che cosa volevo. Se mi dicono creativo, mi offendo perché la creatività non è un mestiere. Io sono un artista. A Boccadasse ero amico di un pescatore, non c’erano le previsioni meteorologiche: ogni sera, per sapere se uscire a pescare, metteva il dito sulla lingua e lo faceva girare per sentire il vento. Non era forse un creativo?».
Carmi è uno dei pilastri dell’astrattismo, appartiene a un’epoca esplosiva, in cui gli artisti italiani dettavano legge sul mercato. Ora dovrebbe posare lo sguardo sul mare di Genova che lo ha visto nascere e meditare sui giganti con cui ha condiviso il suo percorso. «Ha visto il mio sito internet?» mi chiede invece, attento che dia dettagli, che abbia scorso a una a una le foto che lo vedono insieme alla splendida Kiki Vices Vinci, sua moglie per mezzo secolo, artista scomparsa nel 2007, e alla sua colonia di figli e nipoti.
Lo studio è grande eppure trabocca delle sue «geometrie colorate», dei cataloghi di innumerevoli mostre e dell’odore rassicurante del lavoro: non c’è l’ordine calcolato delle attività compiute e rimpiante, non c’è la luce riposante ma inutile all’artista della contemplazione immobile. Pacchi appena aperti o chiusi, tele ricollocate, colori, appunti, tavoli ingombri, silenzio carico di attesa dell’attività che ferve: «Lei è circondata dalle opere su cui sto lavorando. Mi interessa la natura. Lavoro alla sezione aurea, già patrimonio degli antichi. Entro luglio devo terminare due acquetinte, sono appena tornati gli originali che ho prestato ad Andrea Kerbaker per una mostra alla Casa dei libri a Milano. Un regista di New York lavora da due anni alla messa in scena de I tre cosmonauti. Mi aspettano là in gennaio per vedere a che punto siamo con il libretto dell’opera», ovvero un classico dell’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, al pari dei volumetti di Bruno Munari, tradotto in tutto il mondo. «Ho di là le mie copie cinesi, giapponesi e coreane, in Francia il ministero della Pubblica istruzione lo ha scelto per le scuole. Ora le racconto come andò veramente».
Andò che Umberto Eco era a Boccadasse, nel 1966. Era lì perché Carmi lo voleva all’Italsider per un libro sui colori dell’acciaio, perché il Maestro portò in fabbrica l’arte contemporanea, perché fu responsabile per dieci anni dell’immagine coordinata dell’azienda, a beneficio di chi pensa che sia un ruolo inventato dai manager yuppie negli anni Ottanta. «Eco era a casa mia e disse: “Dobbiamo fare un paio di libri per bambini, io scrivo, tu fai le illustrazioni”. Era consulente da Valentino Bompiani e i libri sono stati pubblicati, ma uno parlava di un generale cui sfugge di mano la bomba atomica e diventa portiere d’albergo. Ai genitori la storia non piaceva, nessuno li comprava. Qualche anno dopo ricevo una telefonata da Eco, dal Salone di Francoforte. I media tedeschi si chiedevano dove fossero finite le nostre storie. Le abbiamo ripubblicate subito, sono diventate il più grande successo mondiale di Bompiani». Che cosa era successo? «Erano passati un po’ di anni». Ha nostalgia di quel tempo? «Nessuna. Solo un ricordo: negli anni Sessanta pensavamo che il mondo sarebbe andato sempre meglio. Poi ci siamo accorti che non era vero». Poi quando? «Troppo tardi. Erano quelli gli anni in cui si potevano fare le cose». Oggi? «Oggi tutto è troppo veloce. Non c’è tempo per pensare. E senza pensare non si può fare la rivoluzione».
Il Maestro è leggero nel dire e nel fare, sembra così gracile e minuscolo, vive in simbiosi con la sua assistente, l’artista Sara Valle. Eppure mi ha sistemato lui a questo tavolaccio di legno grezzo, sposta le sedie, si accorge di ogni cosa, i suoi giudizi tagliano l’aria. Che anni erano i Sessanta, com’era il lavoro? «Era un modo olivettiano di vedere la fabbrica. Oggi olivettiano non significa niente. Era un modello, un principio, un’assistenza, una sensibilità. Non guadagnare dieci volte più degli operai. Rimanere a casa dieci mesi, se sei incinta. Produrre cultura, se sei un’azienda». Arte e lavoro possono ancora stare insieme? «Dicono che questa sia una crisi economica. Ma non è vero. La crisi è spirituale, è stata e sarà sempre spirituale. L’arte in Italia è in crisi perché è in crisi la cultura. Gli artisti vivono senza vendere opere perché chi le vuole le compra all’asta. Lotto coi falsi dei miei quadri, diffusi per quattro soldi. Il Paese non fa nulla per i suoi artisti, è incosciente delle proprie ricchezze.
L’arte di oggi non gli piace, mi mostra indignato una foto di My Bed, il letto di Tracey Emin con le lenzuola sporche di urina e slip, preservativi, sigarette, battuto all’asta per 4 milioni e mezzo da Christie’s qualche settimana fa. Detesta Damien Hirst. Ruggisce che gli manca l’emozione della bellezza, il risveglio dello spirito: «Bisogna cominciare da bambini. “Che cosa vuol dire astrazione?” mi chiedono con coraggio i piccoli. Gli rispondo di descrivermi il profumo della rosa. Mi dicono che è dolce. Anche lo zucchero è dolce, la risposta non mi soddisfa. Il profumo della rosa è un’astrazione che non si può raccontare, bisogna solo sentirlo con tutti i sensi. Ma i sensi si mettono in moto solo con le emozioni». Che cosa la emoziona, adesso? «Lo sguardo delle persone. Anche nell’arte. Dietro di lei c’è una donna nuda che accenna un sorriso: la guardi». È la riproduzione di una Venere di Tiziano. «Quel sorriso è un’astrazione».