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 2014  luglio 24 Giovedì calendario

IL PLOTONE DI ASSOLUZIONE


Basta un’assoluzione piena in Corte d’appello per cancellare, insieme ai sette anni della durissima condanna di primo grado, tutti i misteri del Rubygate? Bastano le due frasi «per non avere commesso il fatto» e «perché il fatto non costituisce reato» per dimenticare più di tre anni di gogna mediatica e di scandalo internazionale, dovuti alla doppia, infamante accusa di prostituzione minorile e concussione? Al contrario: è il momento più giusto per tornare indietro e ripescare i giornali un po’ ingialliti della fine del 2010 e dei primissimi mesi del 2011, esattamente quando scoppiò il più mediatico e massacrante fra i 35 processi inflitti al Cavaliere nei 20 anni della sua galoppata politica. Perché è una strana storia quella del Rubygate, il processo che ha stravolto la recente storia politica italiana e che per i suoi contenuti ha devastato l’immagine del Cavaliere, in patria e a livello internazionale, più di ogni altro procedimento penale che gli fosse mai stato scatenato contro, con accuse peraltro terribili: dalla corruzione all’appropriazione indebita, dal concorso in associazione mafiosa fino al concorso in strage. Sì, è davvero una storia strana quella del Rubygate: quasi come i suoi antefatti dimenticati, oggi accantonati come irrilevanti. In quel finale di 2010 è come se i media antiberlusconiani siano pronti all’affondo finale dopo essersi riscaldati i muscoli per quasi tre anni, battendo e ribattendo su un efficace repertorio di presunte rivelazioni su presunte devianze sessuali.
La prima esce il 28 aprile 2009, con la partecipazione di Berlusconi alla festa per il compleanno di Noemi Letizia, a Scampia, e con l’immediata reazione di Veronica Lario, che in una lettera alla Repubblica del 3 maggio annuncia il divorzio: come estrema protesta, dice la moglie del premier, contro «il ciarpame delle veline» che circondano il marito e contro «le vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo, la notorietà e la crescita economica». Parte allora, e dura quasi un anno, la durissima campagna delle 10 domande di Repubblica a Berlusconi: come ha conosciuto Noemi? Le ha offerto una carriera politica? Ci sono altre minorenni che incontra o «alleva»?
Nel giugno 2009 scoppia un altro caso piccante, quello della barese Patrizia D’Addario, donna dal passato tormentato: un anno prima ha consegnato alla Procura di Bari alcune registrazioni «rubate», che provano l’esistenza di un rapporto tra lei e Berlusconi. L’Espresso entra in possesso delle conversazioni, le mette online e pubblica anche altre rivelazioni su quella che subito viene ribattezzata «la escort di Palazzo Grazioli»: si scopre così che altre giovani donne sono state nella residenza del premier e vi hanno dormito.
Quello stillicidio di sospetti inizia a fare breccia nell’opinione pubblica, anche a livello internazionale. Ed è una macchina del fango che muove i suoi ingranaggi a livello globale. Ad Amsterdam, durante una visita ufficiale nell’inverno 2009, Berlusconi viene accolto da centinaia di manifestanti che inalberano cartelli con scritte «Berlusconi è pericoloso se sta accanto alle nostre figlie». È la prima volta che, insieme alle legittime critiche politiche, contro il presidente del Consiglio italiano viene lanciata in piazza un’accusa infamante e senza prove, nata sui giornali e dai giornali coltivata come un frutto avvelenato: quella di un Berlusconi sessuomane, tendenzialmente pedofilo, addirittura affamato di minorenni.
A quel punto scatta un cortocircuito. È come se nemici politici e avversari giudiziari comprendessero, di colpo, che un processo a sfondo sessuale potrebbe fare breccia là dove quasi due decenni di processi d’altro genere non hanno scalfito il consenso popolare del Cavaliere. Berlusconi non lo saprà fino alla fine di ottobre, ma nell’estate-autunno del 2010 su di lui e sul suo entourage si attiva una monumentale e capillare attività di controllo, con oltre 100 mila intercettazioni in meno di sei mesi, decine di pedinamenti, intrusive analisi del traffico telefonico. Per 6.113 volte il telefono del premier, che pure è un deputato della Repubblica, viene indirettamente intercettato o ne viene individuato un collegamento con un’altra utenza. È un lavoro immenso, affidato a decine di tecnici del Servizio centrale operativo della polizia, che in realtà è nato nel 1992 per indagare sulla criminalità organizzata.
Dopo questo sconvolgente lavorio sommerso, il dramma del Rubygate emerge il 26 ottobre 2010. Il Fatto quotidiano sbatte in prima pagina un titolo-scoop: «Io e Berlusconi, una ragazza accusa». A pagina 3 Gianni Barbacetto scrive che da mesi, in gran segreto, la Procura di Milano sta svolgendo un’indagine basata sulle accuse di una ragazza appena diciottenne, tale Ruby, che racconta di avere avuto incontri sessuali, da minorenne, con il premier. Come il sasso che avvia la frana, l’articolo scatena un attacco concentrico.
L’indomani Repubblica comincia a battere la grancassa del «bunga bunga», geniale invenzione lessicale e propagandistica, descrivendo in forma più che pruriginosa le «notti di Arcore».
Si apre così il più disastroso scandalo nella storia della politica italiana, destinato a fare impallidire lo storico caso Montesi, che nel 1953 aveva devastato elettoralmente la Dc, e anche lo scandalo Lockheed, che nel 1978 aveva travolto il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Del resto, Ronald Reagan era solito dire che ogni buon leader politico deve temere tre cose: «Le donne, le donne e le donne». Perché, aggiungeva sorridendo il vecchio presidente americano, uno scandalo sessuale è il più letale di tutti.
Alla fine di quell’ottobre 2010 l’inchiesta «segretissima», affidata a due procuratori aggiunti del peso di Ilda Boccassini e Pietro Forno (e si scoprirà soltanto nel marzo 2014 che sull’appropriazione del fascicolo da parte loro la procura ha visto un durissimo conflitto tra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e un suo altro aggiunto, Alfredo Robledo, formalmente titolare di tutte le indagini sulla concussione), è già squadernata e vivisezionata su tutti i quotidiani. Esce la storia della telefonata in questura del 27 maggio 2010, e vengono coinvolti e messi alla gogna i comprimari dell’indagine, da Nicole Minetti alle Olgettine, le ragazze delle feste di Arcore subito qualificate sbrigativamente come «escort». Si lascia intendere che Berlusconi abbia fatto pressioni sui funzionari di polizia milanesi per evitare che trapelasse la sua relazione con quel mondo e soprattutto con Ruby. Ovviamente fioccano smentite e polemiche. E iniziano anche le stranezze.
Bruti nega più volte che Berlusconi sia tra gli indagati. Il 2 novembre il procuratore arriva perfino a dichiarare che la sera del 27 maggio, nel caso di Ruby, «procedure d’identificazione, fotosegnalazione e affidamento sono state correttamente eseguite e non sono previsti ulteriori accertamenti sul punto». L’indomani aggiunge che «l’affidamento alla consigliera regionale Minetti è parso a tutti una soluzione ragionevole». Dichiara, lapidario: «È ovvio che noi qui perseguiamo reati e non ci interessiamo della vita delle persone». Il 4 novembre Bruti mette una pietra tombale sul caso: «Quel che è scritto nel registro degli indagati è segreto.
Per ragioni istituzionali, però, continuo a dire che Berlusconi non è iscritto. E questo è doveroso».
Le rassicurazioni non bastano a fermare la valanga del pettegolezzo mondiale. Il primo novembre il New York Times scrive che «lo scandalo minaccia il governo italiano», il Times di Londra celebra «l’inizio della fine del regno di Mr Berlusconi». Qualcosa di vero c’è, se il 2 novembre Angela Merkel cancella senza troppe spiegazioni un incontro bilaterale con il presidente del Consiglio italiano, previsto da settimane. Nelle cancellerie europee si mormora sul bunga bunga; se ne ride, ma soprattutto ci si scandalizza, e l’immagine di Berlusconi ormai è in caduta libera. In Italia non va meglio. Il 7 novembre il centrodestra, da mesi in ebollizione per i crescenti contrasti tra il Cavaliere e Gianfranco Fini, dal 2008 suo riottoso alleato nel Pdl, implode definitivamente. Il presidente della Camera, alla prima convention del neonato partito Futuro e libertà convocata a Bastia Umbra, chiede al premier di rassegnare le dimissioni proprio per lo scandalo del Rubygate («Se si è personaggi pubblici si è obbligati a essere d’esempio. Io rimpiango Moro, Berlinguer, Almirante, e il loro rigore, il loro stile: uomini che non si sarebbero mai permessi di trovare ridicole giustificazioni a ciò che non può essere giustificato»). Una settimana dopo, il 15 novembre, la delegazione finiana abbandona il governo dando il via a un periodo di sfiancante turbolenza parlamentare con continui voti di fiducia superati da maggioranze sempre più risicate.
È la seconda volta nella storia che un procedimento penale appena aperto crea una frattura insanabile all’interno di un esecutivo berlusconiano. Era già accaduto il 21 novembre 1994 con l’ordine di comparizione per le presunte tangenti alla Guardia di finanza, spedito da Milano a Napoli a un Berlusconi impegnato proprio in un congresso mondiale
sulla corruzione. Il pm in quel caso era stato Antonio Di Pietro, e l’alleato che ne aveva tratto la convinzione che fosse meglio uscire dal governo e dall’alleanza era stato Umberto Bossi. Corsi e ricorsi storici: anche in quel caso il processo milanese si sarebbe risolto in nulla (un’altra assoluzione «per non avere commesso il fatto», nel 2001); ma anche in quel caso la storia politica italiana sarebbe stata radicalmente modificata.
Torniamo al Rubygate. La mattina del 14 gennaio 2011, appena 70 giorni dopo le tranquillizzanti dichiarazioni di Bruti, Luigi Ferrarella annuncia sul Corriere della sera online che è appena stato recapitato al premier un ordine di comparizione di 389 pagine, contenente la doppia accusa di prostituzione minorile e concussione aggravata. Quale misteriosa svolta è avvenuta alla Procura di Milano? Che cosa le ha fatto virare di 180 gradi la prua, puntandola dritta su Berlusconi? Mistero. Sta di fatto che nel gennaio 2011 parte l’attacco finale al Cavaliere. Con quel fascicolo giudiziario comodamente recapitato nelle redazioni in formato informatico (il giorno stesso la serissima agenzia di stampa Reuters dichiara di avere ottenuto le notizie sull’indagine «da ambienti vicini agli inquirenti»), i media si appropriano di decine e decine d’intercettazioni a dir poco sgradevoli, che accreditano l’immagine di un mondo dove Berlusconi governa su decine di ragazze pronte a tutto, su presunti amici pronti a qualunque turpitudine per interesse. Lo squallore delle «notti del bunga bunga» mina alle fondamenta non soltanto l’immagine del premier, ma la stessa solidità del governo.
Ricorda Fabrizio Cicchitto, che oggi è deputato del Nuovo centrodestra, ma visse quei giorni da capo dei deputati del Pdl: «La destabilizzazione del quadro politico fu immediata, bastò la notizia dei comportamenti privati di Berlusconi per renderlo impresentabile, anche agli occhi dei partner internazionali».
Il disastro è giudiziario e soprattutto politico. Il centro sinistra, ovviamente, pretende che Berlusconi se ne vada subito: «Si ritiri a vita privata, visto che ce l’ha così intensa» suggerisce Pier Luigi Bersani, segretario del Pd. Ma ne approfittano anche altri avversari del Cavaliere, gli stessi che anni dopo si scopriranno intenti a scavare per disarcionarlo, e proprio a partire da quel periodo. Il 18 gennaio l’ex alleato Pier Ferdinando Casini gli suggerisce «un passo indietro, perché facciamo ridere il mondo». Quel giorno stesso Giorgio Napolitano proclama in una nota ufficiale di essere «ben consapevole del turbamento dell’opinione pubblica dinanzi alla contestazione di gravissime ipotesi di reato» e suggerisce al premier di farsi interrogare dai pm, mentre al Quirinale un incontro al vertice termina nel gelo. È il primo segnale, inequivocabile, che Napolitano è stanco dell’inquilino di Palazzo Chigi.
Poi tocca al mondo cattolico mobilitarsi contro la conclamata «satiriasi» del premier: il 19 gennaio l’Osservatore romano pubblica in versione integrale la nota del Quirinale, come a segnare un asse fra le due sponde del Tevere; l’Avvenire scrive che «l’idea che un uomo il quale siede ai vertici dello Stato sia implicato in storie di prostituzione minorile ferisce e sconvolge». Il 20 gennaio 2010 arriva quella che pare la «scomunica» finale: Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano, annuncia che «la Santa sede», cioè il Papa, «condivide il turbamento del presidente Napolitano» e aggiunge che «la Chiesa invita tutti, e soprattutto quanti hanno una responsabilità politica, ad assumere l’impegno di una più robusta moralità».
Mentre insistenti voci accreditano l’esistenza e l’imminente divulgazione d’inesistenti fotografie pornografiche di Berlusconi in compagnia delle sue ospiti di Arcore, il gennaio 2011 corre via tra psicodramma e farsa. Perché a quel punto tutto è utile per rinfocolare la polemica e gridare al «Berlusconi deve andarsene», anche le bazzecole, ma sono bagatelle per un massacro: il 22 del mese lo scrittore Roberto Saviano riceve una laurea honoris causa dall’Università di Genova e la dedica in diretta «a Boccassini e a Forno che hanno ben fatto il loro mestiere»; il 23 il Siulp, il sindacato «progressista» della polizia di Stato, chiede di togliere la scorta al presidente del Consiglio «perché non vogliamo venga usata per le sue amiche».
Il 24 gennaio Berlusconi capisce che la Chiesa sta davvero cambiando cavallo quando Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, manifesta «sgomento e disagio morale» di fronte ai «recenti spettacoli nefasti, moralmente inaccettabili e pericolosi», e chiede si ponga fine a «comportamenti contrari al pubblico decoro» che «minano l’equilibro e l’immagine generale del Paese».
In febbraio, a Milano, il presidente del Consiglio viene rinviato a giudizio per direttissima e si capisce che il processo sarà uno spettacolo disastroso. Intanto si è acceso il caso WikiLeaks, con la divulgazione di tonnellate di carte rubate alla diplomazia statunitense, e il 18 febbraio la Repubblica e l’Espresso pubblicano documenti nei quali l’ambasciata statunitense segnala alla Casa Bianca che «Berlusconi ormai danneggia l’Italia». Anche Giulio Tremonti, il superministro dell’Economia, dà segni d’insofferenza. In quel periodo gli si attribuisce una frase velenosa, forse pronunciata in un Consiglio dei ministri: «Non è il tuo governo che non va, Silvio. Sei tu che hai grossi problemi».
Alla fine della primavera, mentre a Milano iniziano le udienze e sotto la sagace regia di Ilda Boccassini, in tribunale, iniziano a sfilare come testimoni le procaci ragazze dello scandalo, secondo le più recenti ricostruzioni convergenti del giornalista Alan Friedman e di una serie di autorevoli protagonisti della vita politica internazionale, dall’ex ministro Usa delle Finanze Timothy Geithner all’ex presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso, parte il complotto finanziario europeo per scalzare definitivamente il premier. Di quel periodo si sono scoperti intrecci e trame, incontri segreti, consultazioni riservate, incarichi preannunciati. Tutto avviene mentre il Rubygate, fra tribunale e media, continua ingiustamente a massacrare il legittimo inquilino di Palazzo Chigi. A poco servono i suoi proclami d’innocenza e la voglia di resistere a quella che considera un’ingiustizia.
La caduta definitiva arriva inesorabile il 12 novembre 2011. Berlusconi, stretto fra l’impennata dello spread e la picchiata dei sondaggi, è costretto a mollare. Quattro giorni dopo lo sostituisce Mario Monti.
Certo, un ruolo fondamentale per il disarcionamento del Cavaliere lo hanno avuto i governi europei. Ma difficilmente avrebbero avuto la meglio, se prima non fosse stato azzoppato per via giudiziaria. Il professor Carlo Federico Grosso, giurista poco incline a simpatie berlusconiane, dopo l’assoluzione ha scritto: «L’impressione è che con questa sentenza nulla sarà come prima». È vero, molto cambierà, anche nei processi che restano da affrontare al Cavaliere. Una sola cosa non potrà più cambiare, la storia politica italiana, falsificata dal Rubygate: un processo che non aveva senso.