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 2014  luglio 24 Giovedì calendario

IL VANGELO SECONDO MATTEO DI PASOLINI FU SCOMUNICATO DA L’UNITÀ E ADESSO VIENE ECCESSIVAMENTE OSANNATO DA L’OSSERVATORE ROMANO

Sette mesi di lavoro ci hanno ridato nella loro integrità, mezzo secolo dopo, le stupefacenti immagini del «Vangelo secondo Matteo» di Pier Paolo Pasolini, presentato l’altro giorno a Matera, dove, in parte, fu girato. La copia appartiene al Vaticano, che ha celebrato l’evento sul suo giornale, l’Osservatore Romano, con un lungo articolo di Emilio Ranzato.
Una esaltazione: «la più bella vita di Gesù della storia del cinema». Ma come? Nel 1963 Pasolini fu condannato (poi assolto) a quattro mesi di carcere per l’offesa alla religione ne «La ricotta», di cui un borgotaro fa indigestione e muore in croce mentre recita il personaggio del ladrone. Nel 1964 il suo «Vangelo» venne contestato da cattolici tradizionalisti e neofascisti. È dunque cambiato tutto? Dietro questo revival non c’è forse la nuova strategia pastorale di papa Bergoglio, così sensibile ai drammi di tutti, anche dei gay?
Niente affatto. A ben guardare, non è cambiato niente. Il «Vangelo» di Pasolini apparve mentre il Concilio si stava concludendo: è dedicato a Giovanni XXIII; più di mille padri conciliari lo applaudirono in una proiezione riservata; l’ufficio internazionale cattolico del cinema lo premiò. Semmai le critiche vennero da sinistra: «ideologicamente ambiguo» («l’Unità»). Film personalissimo ed eccezionale, il «Vangelo» fu anche il frutto del clima cattocomunista degli anni Sessanta. Esso incarnava tutti i miti dei «cristiani per il socialismo» e della nascente «teologia della liberazione». Di Cristo ce n’è poco, come dichiarò Pasolini. «Sono ateo, per me Cristo non è Dio, ma divino». Fra i vangeli, ha scelto Matteo perché il più umano. Ne usa con rispetto i versetti per presentarci un rivoluzionario e guerriero, che si batte per i poveri e gli emarginati, un Messia duro, violento, iconoclasta, inflessibile, che quasi mai sorride. C’è un affascinante Gesù, manca del tutto Cristo.
Il Messia, come un Che Guevara o un Camillo Torres, avrebbe fatto in Palestina ciò che oggi può dovunque: non una rivoluzione che cambia il mondo, ma una rivolta morale che trasforma gli uomini: contro i soldati romani, in divisa da celerini, e contro quelli di Erode, vestiti da fascisti. Al partito, Pasolini non ha mai creduto. Intellettuale di sinistra, ma scomodo: per lui, il Pci fondato da Gramsci, era ormai in cenere, schiavo dell’opportunismo («la brutalità della prudenza»); i suoi intellettuali organici sapevano fare solo del «posizionalismo tattico». In quei tempi il Pci ostracizzava i gay. Quando poi ci fu la guerra per l’aborto, Pasolini sul «Corriere della sera» lo definì «legalizzazione dell’omicidio». E negli anni del terrorismo simpatizzò con i poliziotti, che reprimevano la contestazione di Valle Giulia: «Sono figli di poveri».
I film di Pasolini, anche se non mancano di riflettere acutamente la situazione socioculturale, non sono mai politici, ma morali. Essi esprimono una concezione pessimistica della vita, che nega ogni speranza e si conclude nel mistero tragico e inviolabile della morte. La resurrezione di Gesù, accennata alla fine del film, è solo un mito, che può dar forza ai miseri, ma non cambia il nichilismo senza senso della storia. Che trova nel film un adeguato accompagnamento nelle musiche funebri che lo accompagnano: la «Passione secondo Matteo» di Bach e la musica funebre massonica di Mozart. Una morte che è stata fissata nella sua ineluttabilità dal primo piano della Madonna, la madre di Pasolini che esprime il dolore di ogni uomo per il non senso del vivere.
Scrive l’«Osservatore»: «un film più religioso che laico». Difficile sostenerlo. Opera grandissima, certo, nella quale però mancano del tutto gli archetipi religiosi, come il mistero e la speranza. Certo, esprimere la religione in un film non è facile e il cinema di cassetta ci ha dato troppe porcherie e profanazioni. Eppure alcuni registi ci sono riusciti: basti ricordare «Dies irae» di Dreyer (1943) o «Il Settimo sigillo» di Bergman (1956). Non così Pasolini. «L’Osservatore» si chiede «se questo capolavoro sia un film su una crisi in atto o di un suo superamento». A me sembra che il tormento esistenziale di Pasolini, evidente anche nei suoi tratti somatici, Pasolini non l’abbia mai superato e che il suo pessimismo sia stato definitivo.
Nell’epoca dell’ottimismo tecnologico e dei miti rivoluzionari egli come pochi ci ha richiamato alla tragedia del vivere. Lo ha fatto nel modo più alto in questo film. Una tragedia dalla quale non seppe uscire e che testimoniò con una morte senza senso, cui andò incontro quasi per testimoniare la sua vocazione, come canta ne Le ceneri di Gramsci: «Quasi grato al mondo per il mio male, il mio / essere diverso».
Gianfranco Morra, ItaliaOggi 24/7/2014