Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 24/7/2014, 24 luglio 2014
SICILIA, UNA FOGNA DEL POTERE
[Intervista a Pietrangelo Buttafuoco] –
Buttanissima Sicilia non è solo il titolo dell’ultimo libro di Pietrangelo Buttafuoco per Bompiani, è il grido arrabbiato di questo 51enne giornalista e scrittore di una sicilianità profonda e viscerale, nato a Leonforta (En) e cresciuto a Catania. Rabbia che si è trasformata in un libello duro, ficcante, ma non privo di pagine ironiche e di profonda malinconia, che sono del resto proprie a questo intellettuale inquieto che, quando diresse l’Italia settimanale, a metà degli anni ’90, fece un giornale di destra che si faceva leggere anche a sinistra.
Domanda.
Buttafuoco, il titolo del libro potrebbe sembrare quasi ironico e forse lo è. Ma c’è una frase che ricorre spesso, lungo queste 256 pagine, che non lo sembra affatto: «La Sicilia è la fogna del potere». Perché?
Risposta. È una storia cominciata un bel po’ di tempo fa. È diventata una fogna per un’esercitazione di potere, che ha ridotto al lumicino questo pezzo pregiato, questo grumo di equilibrio che per secoli è stata quest’isola rispetto al Mediterraneo. Un potere che ha prodotto solo ceto politico. Tanto che infatti, ancora, quando c’è un appuntamento elettorale, fossero pure elezioni provinciali, scatta l’assetto del concorso pubblico, dell’occupazione dei posti.
D. Politica come concorso pubblico, non è male.
R. Direi di più. È quasi una sorta di lotteria, dove si impegna un gruppo dirigente che non ha visione e, soprattutto, che non ha volontà di costruire un futuro. Ovviamente ammetto che ne siano tutti complici, perché tutto voglio fare meno che per portare acqua al mulino dell’antipolitica. Anzi, lo stato in cui versa la Sicilia oggi esige una risposta fortemente politica.
D. Già, ma c’è un passaggio in cui lei, uomo di destra, dice che il 61 a zero, ottenuto dal centrodestra nel 2001 (vittoria in tutti i collegi dell’isola, ndr), fu un’enorme occasione sprecata.
R. Alla fine è stata un’impostura altrettanto forte che la recente rivoluzione di Rosario Crocetta, non ha prodotto classe dirigente ma solo comparse, che infatti sono sparite.
D. Perché è successo?
R. Perché quella fu una vittoria di Silvio Berlusconi, non c’era classe dirigente intorno a lui. E B. poi ha mollato la Sicilia col trucchetto elettorale di Gianfranco Micicchè, che l’ha consegnata Crocetta.
D. Un tradimento?
R. Ma no, è che la Sicilia, nel frattempo, era passata di moda e non interessava più a nessuno.
D. Dunque, la politica laggiù non è mai stata all’altezza, nella storia repubblicana?
R. No, un momento. Contestualizzandone il periodo storico, che fu quello di Tangentolpoli, col senno del poi, devo dire che Rino Nicolosi fu un grande presidente.
D. Un democristiano e lei, che al tempo faceva ancora politica, era ancora un giovane missino.
R. Mi è capitato di conoscere bene alcuni di quelli che contestavo in piazza e di maturare un giudizio diverso su di loro. Giudizio che comunque è affidato alla storia. In ogni caso Nicolosi aveva visione, strategia, faceva politica. E nessuno rideva.
D. Come fa qualcuno oggi di Crocetta, intende. Lei scrive che il nuovo governatore è figlio di un’alleanza fra l’autonomismo di Raffaele Lombardo, e il partito dell’antimafia, versione Beppe Lumia (senatore Pd, ndr).
R. Sono il vero collante e il vero contenuto, praticamente due facce di una stessa medaglia, ma ci vuole tempo ed esperienza per distinguerle bene.
D. Lombardo non lo nomina mai, lo chiama sempre Mastro don Gesualdo. Ma perché s’è fatto da sé, come il personaggio di Giovanni Verga?
R. Ma no, è per nobilitarlo.
D. Scherza, lei lo attacca duramente. E immagino che le obietteranno il perché: la Regione da lui governata teneva a stecchetto il Teatro stabile di Catania che lei dirigeva_
R. Appunto. Perché ho potuto verificare di persona: in quell’incarico, che tra l’altro avevo assunto a titolo gratuito, impiegavo il 70% del tempo a fronteggiare gli agguati della politica.
D. Uno dei grandi mali della Sicilia odierna è, secondo quanto lei scrive, il professionismo dell’antimafia. Per descriverlo, evoca Leo Longanesi che parlava del «fascismo dell’antifascismo». Eppure fa l’elogio di Leoluca Orlando che, di quel fenomeno, fu il primo campione.
R. Siamo giornalisti, stiamo sull’attualità: dalla definizione di Leonardo Sciascia a oggi molte cose sono cambiate. Il livello e la struttura culturale di Orlando non è corrispondente, che so, a quelle di Toni Ingroia. Io distinguo fra mafia, mafia dell’antimafia e lotta alla mafia: su quest’ultima mi fido molto di più di Orlando e di Claudio Fava (deputato che ha fatto la recente scissione di Sel, ndr) che delle sgargianti epifanie dell’antimafia declamatoria. Quello che fa Fava, è molto più efficace di qualsiasi professionista. Anche se oggi, rispetto ai tempi di Sciascia, siamo siamo al carrierismo dell’antimafia: abbiamo fatto un gradino in più.
D. Lei inizia il libro con un’invettiva sull’autonomia, invocando un commissariamento, e lo termina con reiterati appelli a Matteo Renzi a fermare Crocetta.
R. Mi appello a Renzi perché solo lui lo può fare, mettendo le mani sul Titolo V della Costituzione. Anziché applicarsi all’inutile abolizione delle province, deve occuparsi delle Regioni. L’autonomia è santa e giusta, ma non in Sicilia: non siamo stati in grado di reggerne l’opportunità. L’abbiamo utilizzata soltanto per gli sprechi, per gli abusi, per piegare il territorio.
D. Lei racconta en passant alcune cose agghiaccianti: 274 dirigenti del Dipartimento regionale della cultura che costano 15 milioni di euro, quando tutti i musei siciliani, coi loro ricavi, non arrivano a 14; o del museo di Himera di Termini (Pa), che raccoglie 2mila euro all’anno ma ha 37 dipendenti. Che cosa la indigna di più?
R. Il patrimonio cultura e artistico costituisce una vicenda impressionante ed imbarazzante che debba essere affidato alla regione. Ogni singolo paese, qui, potrebbe essere Orvieto o Gubbio, potrebbe essere un luogo frequentato, vissuto, celebrato, descritto. Qui, ogni palmo di terra potrebbe trasformare tutto in economa e commercio.
D. E invece?
R. Invece c’è desolazione, desertificazione ma è solo un aspetto.
D. Gli altri aspetti quali sono?
R. Gli altri sono il dimezzamento della popolazione giovanile. La povertà: degli 11 milioni di indigenti che ci sono in Italia, la maggior parte sta qui. Siamo gli ultimi nell’industria turistica, pur avendo il borgo marinaro di Marzameni (a Pachino, nel Siracusano, ndr), che è più stupefacente di qualsiasi altro lido in Italia. Qui, ripeto, non è più questione di potenzialità ma di fattualità. Il tutto in una maionese impazzita e lo sa qual è il dramma?
D. Quale?
R. Che sono morti i nonni nel frattempo, cioè è venuta meno l’ultima soglia di sopravvivenza per molti giovani che, con la pensione degli anziani di casa, potevano pagarsi la birra al bar la sera.
D. In tutto questo disastro, la mafia appare quasi un problema secondario.
R. Paradossale, ma vero.
D. Senta, però non capisco come mai nel libro lei dedichi alcune pagine quasi simpatetiche a Mirello Crisaffulli, il discusso padrone del Pd di Enna. Non è anche lui parte del problema?
R. Stiamo parlando di una zona poverissima, l’Ennese. Se non ci fosse stato Crisafulli quelle quattro cose che ci sono, non ci sarebbero. Ora, è vero che la sua gestione è, usando un eufemismo, decisionista. Si dice che proporzionale o maggioritario gli vadano bene, tanto vince lo stesso. Però è un fatto che la produzione del formaggio Piacentino, specialità locale, la nascita dell’università e di tante piccole e sofferenti realtà imprenditoriali si debbano al suo cipiglio. Mettersi dalla parte dei buoni, d’altra parte, è facile. E a me non piace. Come con Totò Cuffaro, su cui tutti sputano...
D. È vero che lei quando, a Roma, passa dalle parti di Rebibbia, chiede scusa idealmente, per le cose che ha scritto su di lui?
R. È vero, perché ho scritto cose orribili su di lui, di cui oggi mi dolgo. Oggi che in tanti sguazzano sulla Sicilia, se ne approfittano, e solo uno, dignitosissimo, paga. Lui. Facile declamare principi antimafia e poi governare malissimo come fa Crocetta che, arrivando a Palazzo d’Orleans, per prima cosa, ha sputato su Cuffaro.
D. Lei bersaglia l’attuale governatore dall’inizio alla fine di questo libro. «La sua non è un rivoluzione è un palinsesto», ha scritto ferocemente. Che cosa non sopporta dell’ex-sindaco di Gela (Cl)?
R. Il suo essere solo un personaggio. Crocetta ha un’attrazione irresistibile verso le telecamere, cosa che fa scattare in lui il meccanismo tipico degli orientalisti (nel senso del saggio di Edward Said, Orientalism, che denuncia mistificazioni e semplificazioni, ndr): scrivono cioè cose che nessuno puoi verificare. Crocetta è un grande annunciatore.
D. Ha contro anche il Pd, ormai. Durerà?
R. Questo glielo saprò dire a settembre, quando avrò finito di girare l’isola presentando il libro.
D. Già, lei ha un programma fittissimo. Che cosa le dicono i Siciliani?
R. La gente parla, non viene con l’istinto dell’antipolitica. Non viene per sputare e basta, vengono con lo voglia di politica. Hanno un rapporto strutturato e serio con la politica. Anche perché c’è un’emergenza vera, c’è un problema di sopravvivenza.
D. Che il continente, mi pare, non capisca...
R. Esattamente.
Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 24/7/2014