Roberto Vecchi, Limes: Brasiliana 6/2014, 24 luglio 2014
LULA POP
IL LULISMO È UN FENOMENO DA PRENDERE sul serio. Una prestigiosa rivista accademica brasiliana, quella dello Ieb, l’Instituto de Estudos Brasileiros, della tradizionalista Universidade de São Paulo (Usp), dedica nel numero di giugno un dossier di approfondimento proprio al tema del lulismo come chiave analitica privilegiata del Brasile contemporaneo.
Forse l’immagine che consacra il lulismo come fenomeno non solo iscritto nel perimetro delle scienze politiche in cui si origina, ma come prodotto e simbolo culturale di una determinata epoca storica del nuovo Brasile, è quella divulgata proprio al termine della presidenza Lula, nel dicembre 2009, a pochi giorni dall’insediamento di Dilma alla prima carica dello Stato. I fotografi rubano un’immagine del presidente accompagnato da Dona Marisa. La spiaggia è quella di Inema, a Salvador, presso la base navale di Aratu. Il presidente, che raccoglie in quei giorni il favore dell’87% dell’elettorato brasiliano – dato record per una chiusura di mandato – è ritratto in bermuda, canottiera e hawaiane e trasporta sul capo il classico isopor, il box di polistirolo che mantiene fredde le bevande nelle canicole tropicali. Una icona pop democratizzata, immagine interclassista nella quale si riflette e riconosce quasi per intero la popolazione che va in spiaggia col proprio isopor di birre e bibite, lo trasporta sulle spalle o in testa – un gesto dal sapore antico del Brasile coloniale – trascinandosi in ciabatte sulla sabbia rovente.
Nel giugno 2012 la rivista Piauí, in un momento in cui l’immagine pop di Lula diventa oggetto di analisi, capta subito il valore dell’istantanea presidenziale e la riproduce in versioni multicromatiche da pop-art chiaramente ispirate ad Andy Warhol. Soprattutto, Mário Sérgio Conti si interroga sul significato di quella immagine: molto più di un ritratto ufficiale del presidente della Republica Federativa, quella fotografia funziona come spia rivelatrice del dispositivo complesso del lulismo.
Quella immagine esprime la capacità di Lula di aggregare il sostegno non solo delle nuove classi medie che hanno beneficiato della stagione di crescita e comprensibilmente scommettono sul loro leader, ma anche delle ali socialmente estreme del Brasile, o come diceva la sociologia funzionalista degli anni Cinquanta, «i due Brasili»: quella fetta, in fase di riduzione, di cinque milioni di diseredati ancora esclusi dal mercato formale e la élite finanziaria che ha prosperato come raramente era accaduto in passato grazie ai fondamentali stabili dell’economia brasiliana.
La frase «Lula faz muito bem ao Brasil» («Lula fa molto bene al Brasile») la si sente pronunciare, come osserva uno studioso del lulismo, sia dal banchiere aristocratico che vive nelle zone esclusive di San Paolo, sia dalla domestica a ore che trascorre la sua giornata tra un lavoro male remunerato e le lunghe corse e attese in autobus per raggiungere la sua abitazione in periferia. La sintesi di questa dialettica complessa è, come scrive lo psicanalista freudiano Tales Ab’sáber nel suo saggio Lulismo. Carisma e cultura anticritica, un elemento fondamentale che l’icona pop di Lula valorizza: il «corpo transferencial», il lato di potenza umana presente nel carisma, il self politico che produce un effetto di transfer su un vasto pubblico politico; la spiaggia, l’informalità di abbigliamento, lo scatolone delle bevande fresche caricato in testa, un modello universale con cui autoidentificarsi.
Il corpo del presidente diventa così un corpo comune, in un paese dove il senso del comune sempre è stato, sul piano storico, assoggettato a molteplici conflitti che hanno compresso la configurazione di una vera comunità nazionale coesa, se non sul piano superficiale del nazionalismo retorico e di superficie.
Chi avrebbe mai detto che il sindacalista emigrato a San Paolo dal Nord-Est del Brasile, non alto, non magro, privo di un dito perso al tornio negli anni del lavoro in fabbrica, avrebbe potuto esercitare una tale capacità di seduzione collettiva? Ma se l’ampia base sociale di meno abbienti si riconosce per automatismo in tali caratteristiche, che diventano una declinazione del nazionale non egemonico, come vi si possono rispecchiare invece i gruppi sociali più abbienti, segnati da sempre, per effetto del lascito della più tardiva abolizione della schiavitù dell’Occidente, da un inarginabile disprezzo di classe?
2. Il lulismo sembrerebbe aver forgiato una nuova alleanza interclassista che, nella disgregazione sociale del Brasile provocata soprattutto dalla crisi economica iperinflazionistica dei primi quindici anni di ridemocratizzazione dopo la modernizzazione autoritaria ed escludente imposta dal regime militare, ha reso largamente consensuali i governi neo-post-liberali, almeno sino al primo biennio della presidenza Dilma.
Qui è opportuno tornare all’intuizione originale che ha dato vita alla categoria del lulismo. Il suo embrione può essere individuato ancora agli inizi dell’èra Lula, dopo la vittoria elettorale del 2002, con la rassicurante – per i mercati che temevano un Partido dos trabalhadores (Pt) troppo a sinistra – «Carta ao povo brasileiro («Lettera al popolo brasiliano») e la campagna pacificatrice – cosiddetta del «post-rancore» – «Lulinha paz e amor» («Lulinha pace e amore»).
Il lulismo come categoria politologica nasce però dall’analisi dei risultati della rielezione di Lula nel 2006. Ne è artefice il politologo dell’Usp André Singer, già portavoce della presidenza sino al 2007, che nel 2012 pubblica una ricerca avviata nel 2009 e intitolata Os sentidos do lulismo (I significati del lulismo). Già nelle premesse dello studio, che analizza dall’interno del secondo mandato la dinamica di costruzione della rielezione dell’ottobre 2006, Singer coglie uno snodo essenziale, un nuovo patto sociale che rifonderebbe dal basso le basi del lulismo. Le politiche sociali del primo mandato (come per esempio la Bolsa família) avrebbero indotto le classi più povere a votare in massa per Lula mentre la classe media gli avrebbe girato le spalle. Se il voto del 2002 era interclassista, quello del 2006 è scopertamente di classe. Il sottoproletariato, prossimo alla categoria del lumpen, riconfigura lo spettro ideologico del sostegno a Lula, che si era retto, sin dalle origini del Pt, soprattutto sull’appoggio della classe media urbana, che però in questa occasione lo abbandona.
Nel fissare il segno di contraddizione più evidente del lulismo, la combinazione di conservazione e di cambiamento, Singer utilizza abbondantemente la lezione di Gramsci, interpretando il lulismo come una declinazione della «rivoluzione passiva» che attua un movimento senza mobilitazione: è il tratto di quella che egli definisce «la questione settentrionale» del Brasile lulista, ossia come il settore tradizionale della società brasiliana, la massa rurale e semirurale del Nord-Est, tradizionalmente condizionata e manovrata dagli interessi oligarchici della regione, si emancipa dal blocco storico cui era vincolata per aderire al lulismo. Il nuovo quadrante classista esprime una dimensione popolare della politica che mescola e combina elementi di innovazione e conservazione, di sinistra e di destra, una duplice attenzione rivolta da una parte al forte impulso all’inclusione sociale, dall’altra alla stabilità monetaria come valore comune e condiviso.
Singer capovolge così la pur interessante tesi che Chico de Oliveira, eterodosso critico del Pt e suo ex militante, aveva rivolto contro il governo dopo la rielezione del 2006, definendo il plebiscitario sostegno di classe al lulismo – anche lui con Gramsci – come un’«egemonia al contrario» dove, in chiave paradossale, i dominatori acconsentono di essere guidati dai dominati, in un quadro del tutto inedito che sfida la teoria e impone un salto interpretativo nuovo e problematico.
Emerge così una definizione del lulismo come intensità politica in grado di operare una forte e inattesa mediazione tra le ali estreme della società brasiliana, che situa il Partido dos Trabalhadores in un quadro inedito di egemonia in contromano rispetto alla sua eccezionale storia politica: nel senso di partito urbano e di classe media, formatesi in un luogo proprio e periferico della costellazione socialista, ossia nella fase di ridemocratizzazione del Brasile dopo la lunga notte della dittatura militare, per giunta col tratto di essere un partito dotato di un suo compiuto progetto politico e non un movimento legato alla tradizionale forza del suo leader.
La trasformazione del partito in un altro soggetto politico, iscritto in una tradizione come quella brasiliana, in un fase di crescita del paese con l’articolazione di nuove classi che agitano l’intera società (come per esempio la famosa «nuova classe media», la classe C, emancipata dalla povertà: l’opera più visibile dei programmi di crescita con qualità lulista), introduce però il vero tema in discussione dinanzi allo «spettacolo della crescita», il «piano rooseveltiano» brasiliano di quella stagione. Si tratta dell’eterno ritorno, per un contesto proprio come quello della formazione stessa del Brasile, dell’ombra populista che qualcuno ravvisa nelle pieghe nel lulismo. Per esempio, l’intellettuale conservatrice statunitense Deirdre McCloskey (Bourgeois Dignity) classifica l’azione di Lula come caratterizzata da un «populismo razionale» per inquadrare le linee di un governo che si presta a essere interpretato, dalla destra economica nazionale, come neopopulista di mercato.
Ci si troverebbe insomma di fronte a una figura classica latinoamericana nella sua declinazione brasiliana (e qui emergono le riflessioni dei classici dell’interpretazione del Brasile degli anni Trenta, come per esempio Raízes do Brasil di Sérgio Buarque de Holanda, sulla permanenza dei vincoli personalistici nella sociabilità brasiliana moderna, segnata in profondità dalle caratteristiche della formazione nazionale), in cui il corpo carismatico di Lula diventerebbe garanzia di un patto sociale che rinvia in modo immediato dal popolo alla sua figura. L’immagine pop di Lula sarebbe così una tecnica di articolazione di una forma aggiornata di populismo che si struttura su una forte presa simbolica. Lo stesso Lula, da grande comunicatore qual è, ha colto attraverso alcune citazioni la potenza del richiamo al populismo di marca brasiliana. È avvenuto per esempio nella campagna del 2006, quando in modo deliberato ha costruito un parallelo tra se stesso e la figura più complessa della storia politica brasiliana del Novecento: Getúlio Vargas, «pai dos pobres», dittatore dello Estado Novo prima (1937-45) rieletto poi democraticamente (riportato al potere «nos braços do povo») nelle elezioni del 1950, infine morto suicida nel tragico agosto del 1954. Interprete contraddittorio di un populismo tropicale, fondatore delle principali leggi di tutela laburista, ma dittatore dal pugno di ferro nella repressione degli anni di guerra, Getúlio, oltre a incarnare la sfinge assoluta della politica brasiliana, resta l’artefice del principale progetto di sviluppo e di crescita nel Novecento. In questo senso va letto il richiamo di Lula all’ombra varghista, per l’intensità e profondità dell’idea di modernizzazione, nel senso di un progetto nazionale con un forte protagonismo da parte dello Stato.
Questo è bastato per alimentare un dibattito sulle pseudoanalogie tra Vargas e Lula. Secondo una fine interprete come Maria Sylvia Carvalho Franco, il lulismo userebbe il paternalismo varghista per fini propri, promuovendo una inversione di valori nei quali Dilma non solo si riconoscerebbe ma di cui garantirebbe la riproduzione. Da questo punto di vista, la posizione di André Singer sul tema è di altro segno: la costruzione dall’alto del «popolo» come attore che collega il lulismo a settori disgregati e invisibili della società rinvierebbe, secondo il politologo paulista, a Vargas nel doppio regime di autorità e tutela offerto agli strati meno protetti di popolazione. Insomma, il nuovo mercato interno non solo come strumento economico di sviluppo ma come leva sociale di inclusione, con ampie contropartite politiche sull’assetto della modernizzazione strutturale del paese. Un terremoto o meglio, nelle parole di Singer, la mobilitazione di «placche tettoniche» del Brasile profondo e «ignoto», all’apparenza da sempre statico e inamovibile.
Il riferimento a Vargas viene usato come possibile chiave di lettura del lulismo ancora nella sua fase proiettiva, ma balzano agli occhi le differenze evidenti tra varghismo e lulismo: se il varghismo produce e assoggetta il popolo, almeno nella sua fase autoritaria, il lulismo è anche il prodotto rappresentativo delle classi che lo scelgono e lo eleggono a simbolo di una certa epoca senz’altro affluente della storia brasiliana.
3. Piuttosto, il confronto del lulismo va fatto con un altro «ismo» sorto nell’analisi politica brasiliana più recente. Il filosofo Marcos Nobre, attraverso uno studio che nasce dalle rivolte del giugno 2013, all’epoca della Confederations Cup (Imobilismo em Movimento. Da Abertura Democrática ao Governo Dilma), ha individuato un tratto caratterizzante la politica brasiliana, quello del peemedebismo. Il Pmdb è stato il partito di opposizione liberal-centrista fondato all’epoca del regime militare, che ha guidato prima, per mezzo di una serie di veti, il negoziato della democratizzazione, diventando poi, col ritorno della democrazia, il partito-autobus in grado di trasportare qualunque tipo di alleanza vi volesse salire purché a garanzia della sua permanenza al potere. Alleato prima di Fernando Henrique, dal 2005 è entrato a fare parte del governo di coalizione di Lula. Secondo il filosofo di Unicamp, il peemedebismo è quella forma propria della politica brasiliana rivolta all’annullamento del conflitto, alla neutralizzazione di qualunque possibile polarizzazione in nome di un continuismo fisiologico.
Il lulismo, dunque, nascerebbe anche da una peemedebizzazione del governo Lula, che si sarebbe trovato con un centro ipertrofizzato, responsabile di una «regressione della politica». Sarebbe questa la chiave interpretativa della mancanza di riforme sostanziali (o di quel «riformismo debole» talora ascritto ai governi di Lula e Dilma) e del difetto di rappresentanza che avrebbero spinto in massa molti brasiliani a protestare nelle piazze delle principali città lo scorso anno.
Un altro interrogativo da porsi nel quadro in movimento della politica brasiliana è se il lulismo senza Lula (la cui immagine si è anzi ristrutturata all’epoca in cui, dopo il termine del secondo mandato, il corpo del presidente è stato segnato prima dalla malattia – un tumore alla laringe – e poi dal recupero, col pronto ritorno sulla scena politica già nel voto amministrativo del 2012), nel corso della presidenza Dilma sia stato effettivamente l’architrave della sostenibilità politica e sociale della sua eredità. Oppure, se un indicatore della complessa crisi attuale, che vede un contesto polarizzato tra tre candidati, due dei quali di centro-sinistra, non derivi forse dalle discontinuità e dalle riformulazioni del modello, pur nell’autorappresentazione per cui quello di Dilma è un governo di traduzione o di aggiornamento, dunque sostanzialmente di conservazione, dei principali assi del lulismo.
Il lulismo non può essere confuso con il varghismo o il peemedebismo, «ismi» del passato e del presente con cui può avere strumentalmente dialogato in occasione delle logoranti campagne elettorali brasiliane, stretto dalla necessità di formare una coalizione maggioritaria. Il progetto di partito cui il Pt, nonostante le crisi degli ultimi anni, continua ad apparire legato limita i rischi di una sua trasformazione in movimento, condizione cui approderebbe se il lulismo in effetti fosse una forma acritica di populismo. E rispetto al peemedebismo il lulismo si pone come un riformismo che mette sotto pressione le strutture ormai rigide o forse obsolete dell’architettura istituzionale della democrazia brasiliana, il cui sistema politico andrebbe radicalmente riformato. In questo senso, ha ragione lo scienziato politico Fábio Wanderley Reis quando analizza la combinazione inedita di «simbolismo popolare e impegno distributivo» e allude a una polarizzazione operata dal lulismo non ideologica ma costruita su una narrativa anche di immagini che, all’interno e in coerenza con un quadro latinoamericano segnato da leadership personali e forti (Chávez, Evo Morales, Kirchner), formula una distinzione non su categorie astratte, ma su un’ideologia dello sviluppo che muove dal superamento delle divisioni di classe. Tale tendenza crea nei fatti un allineamento, che l’attuale campagna elettorale forse impedisce di vedere, tra le istanze dei movimenti di protesta dell’ultimo anno e il lulismo come spazio negoziale attivo su un progetto di nazione e di modernizzazione dello Stato.
Ancora a lungo si discuterà di lulismo come del marchio di un’epoca peculiare della storia recente brasiliana. L’inizio di una nuova èra o un tempo delimitato di un ciclo molto favorevole al paese, comunque effimero e non sostenibile? Le immagini pop di Lula sono in fondo non solo l’emblema della forza simbolica del loro titolare, ma mostrano quanto in profondità stia cambiando il Brasile, verso una modernizzazione capace finalmente di tagliare lacci e laccioli delle pesanti eredità sociali del passato che rendevano impensabile un presidente di origine operaia o l’inclusione nel mercato formale di milioni di brasiliani.
Il residuo del passato è oggi quel segmento elitario che si considerava invece moderno negli anni del Brasile spaccato dalle divisioni sociali interne. Questa inversione di segno verso la definizione di una nuova modernità brasiliana che vada oltre i blocchi storici che hanno limitato il potenziale tuttora enorme del paese è forse l’elemento più innovativo e sostanziale del lulismo, una specie di radiografia dei poteri effettivi, ma meno visibili e più complessi da trasformare, che mostrano la propria forza di polarizzazione nel clima arroventato della campagna in corso per le elezioni di ottobre.
Le immagini di Lula in bermuda e con l’isopors sul capo che hanno aperto il decennio forse sono – o stanno per diventare – non tanto il simbolo di un nuovo populismo, nella sua più aggiornata declinazione brasiliana, ma l’icona di un’altra narrativa possibile: una rappresentazione che può fare del Brasile un bene di tutti, non più solo di pochi. Chi sarà in grado di fare propria e rilanciare, nel prossimo futuro, la forza potente di questa nuova immagine senza correre il rischio di ritorni o riavvitamenti in un passato nemmeno troppo lontano? Il nome forse non lo stabiliranno nemmeno le urne a ottobre, ma a reggere ancora per molto la possibilità del lulismo resterà sempre e solo il suo inventore: Lula.