Maurizio Molinari, La Stampa 24/7/2014, 24 luglio 2014
L’INTIFADA 2.0 DEI GIOVANI DI RAMALLAH COSTRINGE ABU MAZEN A CAMBIARE
«Le richieste di Gaza sono gli obiettivi dell’intero popolo palestinese». È notte fonda a Ramallah quando Yasser Abed Rabbo, veterano dell’Olp, esce dalla riunione dei vertici di Al Fatah nella Muqata per far sapere che la leadership dell’Autorità nazionale palestinese ha deciso di fare proprie le posizioni di Hamas nel braccio di ferro in corso con Israele ed Egitto sul cessate il fuoco. «Gaza vuole la fine dell’aggressione e del blocco israeliano e questi sono gli stessi obiettivi dei nostri leader» aggiunge Abed Rabbo parlando a nome del presidente Abu Mazen, che in questa maniera compie un rovesciamento drammatico di posizione.
Fino a poche ore prima era uno strenuo sostenitore della posizione egiziana, favorevole a un cessate il fuoco incondizionato, e si accingeva a volare in Arabia Saudita per consultarsi con il sovrano capofila del fronte arabo anti-Hamas. Ora annulla il viaggio a Riad, si chiude in una riunione fiume con i più stretti consiglieri e opta per il sostegno alla linea di Hamas. È un rovesciamento accolto con favore da Washington perché crea un canale di dialogo con Hamas. E ciò spiega perché il Segretario di Stato, John Kerry, arrivando a Gerusalemme, parla di «segnali positivi». Poco prima che da Doha Khaled Meshaal, leader di Hamas all’estero, si pronunci a favore di «una tregua umanitaria».
Se Abu Mazen dovesse riuscire a rappresentare Hamas si aprirebbero nuovi scenari, inclusa una possibile risoluzione Onu per assegnare alle forze dell’Autorità palestinese il controllo dei confini di Gaza. In attesa di sapere quali sviluppi la soluzione diplomatica prenderà ciò che conta a Ramallah è «la marcia indietro di Abu Mazen» che Ahmad Rafiq Awad, politologo palestinese in passato feroce critico di Hamas, spiega così: «Non aveva alternative perché i palestinesi provano orgoglio per la resistenza di Hamas, per la purezza ideologica e le qualità militari dei suoi leader, mentre sono scontenti di un presidente che finora ha pietito negoziati e trattative con israeliani, americani e occidentali».
Sono questi sentimenti a spiegare perché, da oltre una settimana, ogni giorno alle 22, gruppi di manifestanti si riuniscono nella centrale Manara Square per protestare contro la «Dayton Police» e i «Dayton Friends» ovvero leader politici e militari locali identificati con il generale americano Keith Dayton fino al 2010 responsabile dell’addestramento delle forze palestinesi. C’è chi ha tirato sassi contro il quartier generale della polizia, che è uscita armata di bastoni picchiando i manifestanti e arrivando a investire i cameramen tv. «Quando le forze palestinesi infieriscono sui palestinesi anziché perseguire la creazione della nazione significa che qualcosa non funziona», assicura Issam Bakin, coordinatore dell’associazione Partiti politici islamici e nazionali che dalla Seconda Intifada costituisce un raro ombrello bipartisan ed ora è protagonista delle proteste a Manara Square. Bakin è rauco perché «a forza di strillare nel megafono parlo a fatica». È lui che ha tentato di guidare i manifestanti verso l’insediamento ebraico di Beit El «fino a quando i nostri poliziotti ci hanno fermato».
Nel suo ufficio si alternano militanti, uomini e donne, che affermano di «provare vergogna per una leadership finora troppo timida nel sostenere il popolo di Gaza». Una ragazza di 25 anni, jeans e senza velo, accusa Abu Mazen di «aver tardato nel dire a Gaza che non è sola». A pochi metri di distanza, davanti al municipio, un tappeto di oltre 600 bare coperte con drappi palestinesi rappresenta le vittime di Gaza. Abu Mazen ha ordinato tre giorni di lutto ma Bakin sostiene che «al punto in cui siamo serve ben altro, bisogna denunciare Israele al Tribunale penale internazionale e chiedere un’indagine dell’Onu sui crimini che commette».
A pensarla nella stessa maniera è Mash-hour Arouri, imprenditore di 29 anni e fra i duecento promotori della «Marcia dei 48 mila» che questa sera partirà dal campo profughi di Amari tentando di superare i posti di blocco e arrivare a Gerusalemme «per pregare sulla Spianata delle Moschee». «Siamo laici e non islamici - dice Arouri, ingegnere elettronico formatosi a Dubai, alla guida di uno start up da tre milioni di dollari - e vogliamo dimostrare solidarietà a Hamas per provare che il popolo palestinese è uno, a Ramallah, Gaza o Nazaret». Il gruppo «Marcia dei 48 mila» (un richiamo al 1948, anno della «catastrofe» della nascita di Israele) nasce su Facebook, si sviluppa con un network di 500 mila likes e riceve il sostegno dei due leader palestinesi più popolari: Marwan Barghouti, ex capo dei Tanzim, e Ahmed Sadaat, del Fronte popolare, entrambi condannati all’ergastolo in Israele per molteplici attacchi terroristici.
Il figlio di Barghouti, Qassem, è un altro degli organizzatori. «Abu Mazen vive nel passato, persegue mete superate, non ispira più i giovani e i militanti - assicura Arouri - tocca alla nostra generazione guidare una mobilitazione dal basso, per ottenere ciò che più vogliamo: Gerusalemme e il diritto al ritorno per i profughi». Ciò che accomuna Arouri, Bakin e Awad è l’essere contro la violenza armata «per una militanza attiva basata sul rispetto dei diritti». Arouri si spinge fino a dirsi «contrario al lancio di razzi contro Israele» e promette che «non lanceremo pietre contro i soldati israeliani al check point di Qalandia ma se ci fermeranno torneremo la sera seguente, e poi ancora quella dopo». Nell’intento di «esprimere nella West Bank l’orgoglio palestinese rafforza la gente di Gaza» affinché «la battaglia per l’indipendenza non resti solo nelle mani di Hamas». Con una base palestinese protagonista di tale ebollizione, Abu Mazen è rimasto senza altra scelta possibile che il sostegno ad Hamas.