Vera Schiavazzi, la Repubblica 24/7/2014, 24 luglio 2014
LA CITTA’ DEI RAGAZZI
E all’improvviso, Milano si è scoperta uguale a New York: perché sposarsi, o anche solo fidanzarsi, quando si è troppo impegnati a cercare o mantenere un lavoro, e la città offre ogni sera occasioni diverse e imperdibili? Ma anche Bologna, Pavia, Padova, Urbino, Torino si stanno gradualmente trasformando in grandi lunapark, cari e talvolta insopportabili per chi ha figli, divertenti ed effimeri per chi è solo, ha meno di quarant’anni e può permettersi di non fare troppi programmi, condividere un alloggio e cavarsela a pranzo con la focaccia a un euro e 50 e la sera con l’aperitivo al posto della cena. Per chi è abbastanza ricco da pagarsi due o tre locali per sera, o abbastanza povero da finanziare i suoi studi con un lavoro precario nella movida cittadina (cameriere, naturalmente, ma anche fattorino per le pizze e il sushi, dog e plant sitter, uomo che fa la fila al tuo posto, commesso al minimarket). Purché senza responsabilità verso terzi: quando è finito, è finito, e resta solo da divertirsi.
I dati raccolti da Censis per Ance, l’Associazione nazionale dei costruttori, raccontano un doppio flusso che dura da vent’anni: dentro studenti, stagisti, neo-laureati in cerca di fortuna e professionisti che rientrano solo nei weekend, fuori le coppie appena sposate, gli stranieri grazie ai quali la popolazione aumenta, i neo-proprietari con un figlio, le famiglie allargate o ricomposte dove c’è posto anche per i nonni. E siccome i single contano per uno, la popolazione delle città e dei centri storici continua a diminuire, mentre il saldo se si guarda alle province intere è in attivo, e cresce rapidamente il numero dei pendolari, e di chi protesta perché il treno è in ritardo. Fuori, le villette a schiera, i villaggi con la sbarra per entrare, la vita di paese, le cascine ristrutturate e divise a pezzi, le grigliate domenicali e le sagre con i cibi a chilometro zero. Dentro — in città — il cohousing e il coworking, gli studi universitari che non finiscono mai e i fiumi di birra a un euro il boccale, ma anche lo sconto sulla tassa rifiuti per chi vive solo, i siti per facilitare gli incontri (vitadasingle. net pubblica un ricco calendario, dal dibattito sulle adozioni alla cena in piazza con dress code obbligatorio) e gli anziani che affittano stanze ai giovani perché gli appartamenti italiani sono comunque troppo grandi per pagarseli da soli.
«L’Italia non fa che confermare una tendenza europea: le famiglie si spostano ai margini o fuori dalle città — spiega Gabriele Pasqui, direttore del dipartimento di Architettura e studi urbani del Politecnico di Milano — Dal 2000, i centri storici delle grandi aree urbane italiane
sono stabili o perdono pochi abitanti (ad esempio Milano e Torino perdono l’1% della popolazione tra il 2001 e il 2011). Il processo di uscita dai nuclei centrali delle grandi città ha certamente riguardato innanzitutto le famiglie “tradizionali”». Vivere in città costa troppo, ma soprattutto, ricorda Pasqui, «pesa la tendenza tutta italiana della scarsa offerta di case in affitto, che ha penalizzato soprattutto le famiglie più giovani e con figli, costringendole a spostarsi prima verso le aree più periferiche dei comuni capoluogo, poi verso i comuni di cintura e infine anche più all’esterno, nelle aree delle regioni urbane meno congestionate e care». Ma la fuga dalle città non si spiega solo con i prezzi: «Si affermano nelle famiglie italiane modelli e gusti abitativi incompatibili con l’offerta delle aree più centrali: la domanda di spazi verdi, la ricerca del comfort legato a modelli suburbani (la casa unifamiliare su lotto, ma anche la residenza nel verde e così via…)», aggiunge Pasqui.
Nell’imbuto vuoto delle città, si stratificano le classi sociali più diverse: ci sono i palazzi del Seicento e del Settecento ristrutturati e “gentrificati”, quelli dove solo i ricchi, le banche, i grandi studi di avvocati o gli oligarchi
russi possono permettersi di comprare, e, cento metri più in là, le aree degradate dove vivono e aprono i loro negozi gli immigrati arrivati per ultimi. Nel mezzo, cresce un’allegra tribù di giovani italiani cosmopoliti, laureati e laureandi che non esitano a vivere senza un fornello né un mezzo di trasporto, ma in compenso spendono tutto in abiti (dalle capsule collection degli stilisti per H&M in su), alcolici, palestre. Un imprinting che crea l’offerta: parrucchieri che ti sistemano i capelli in 15 minuti, personal trainer che ti rifanno i muscoli in mezz’ora, ma anche posti-divano a 150 euro al mese, e frigoriferi rigorosamente vuoti, perché se un single vuole davvero mangiare a casa sua deve spendere oltre 350 euro al mese, come ha scoperto Coldiretti a Milano, quasi il 66 per cento in più rispetto a chi vive in famiglia. Le catene della grande distribuzione ci provano comunque, anche i single sono un target di tutto rispetto. Con 200 metri strategicamente piazzati in centro, un minimarket può vivere alla grande: sono molte le catene che stanno rilanciando la formula del piccolo spazio in pieno centro, da Dì per Dì a Conad, per arrivare a Carrefour Express, che a solo a Torino, nel 2014, passerà da 63 a 70 negozi. L’ultimo nato è nel salotto della città, a pochi metri dall’Emporio Armani e dal negozio Prada, allestito in pochi giorni. «Cerchiamo di ricreare un negozio dove puoi trovate di tutto, dal latte al detersivo per i piatti, dalla mela ai biscotti passando per le crocchette del gatto — spiega Gabriele Di Teodoro, direttore italiano del marchio — La nostra e trattorie si è spostato, anche al nord, fino a toccare la mezzanotte) e si accontentano di uno scaffale di mass-market per custodire i loro oggetti (crescono i negozi Ikea, chiudono tappezzieri, restauratori, falegnami). Single e felici? Forse sì, come l’Ernest Hemingway di “Festa mobile”: “Era la Parigi dei bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici”.
Le famiglie, invece, protestano contro gli aumenti nelle mense scolastiche, che a loro volta ripongono una filosofia “fast” (“ paghi solo quando tuo figlio mangia”), chi non ha ereditato una casa non può più comprarla, e dunque emigra. «Così — avverte Paolo Buzzetti, presidente di Ance — le città espellono il ceto medio, il tessuto sociale che le abitava fino a pochi anni fa. E quelle italiane hanno problemi più gravi del resto d’Europa, come la metropolitana che non c’è o copre poche fermate. I prezzi nei centri urbani non scendono, o quanto meno non precipitano come è avvenuto in periferia, e il mercato va di conseguenza. Ciò nonostante, c’è ancora un gran bisogno di case. E se ci decidessimo a incentivare davvero chi ristruttura a fini energetici, scopriremmo che agli italiani piace abitare vicino a dove sono nati e a dove sono andati a scuola. Restituendo all’Italia e alle sue città un patrimonio
immobiliare migliore».