Franco Cordero, la Repubblica 24/7/2014, 24 luglio 2014
QUELLA CURIOSA OMONIMIA TRA MATTEO E IL TRIBUNO COLA
Nel teatro politico italiano salta agli occhi un’omonimia: l’attuale presidente del Consiglio è Matteo Renzi, fiorentino; lo stesso patronimico portava Nicola, nato tra i mulini del Tevere, rione Regola, aprile o maggio 1313, nell’Urbe ancora mezza gotica; e condividono qualcosa. Giovani tutt’e due, emergono in società disorganiche: mediante parole, gesti, figure, parlano alla fantasia; l’aggettivo “fantastico” ricorre nella Cronica volgare romana databile 1357-58 (prosa dal passo scultorio). La platea aspetta miracoli. L’Urbe esponeva innumerevoli lapidi e Cola evoca scenari meravigliosi: «Como e quanto era veloce lettore»; ha sulla punta delle dita grammatica, retorica, storie, poeti; «tutta die speculava nelli intagli de marmo». Mandato ad Avignone dai tredecim boni viri (autunno 1342), torna con un buono stipendio, 5 fiorini d’oro al mese, notaio del Tesoro comunale, nella cui sala tiene «luculente» arringhe: denuncia soprusi, baratterie, omertà; altrettanto bene usa l’arte figurativa quando pitture allegoriche sulle pareti raccontano la sventura romana; e nel disinteresse dei baroni ignoranti guida una festosa rivoluzione (primavera 1347). Adesso firma «Nicola severo e pietoso, de libertate, pace e iustitia tribuno, anche della santa romana reipublica liberatore illustre». Qui finiscono le storie parallele. L’Io gonfio innesca varie follie. Dopo sette mesi gli vengono paure futili: sabato 15 dicembre «piagnenno e sospiranno» rivendica i meriti, incolpa d’invidia i denigratori e abdica; «ora descenno de mio dominio». Sette anni dopo è figura degenere anche fisicamente nella rentrée dal 1° agosto 1354 alla miserabile carneficina (8 ottobre). Matteo fiorentino non è letterato d’humanitas né pare incline alle visioni: agonista d’istinto, dinamico, compatto, reattivo a colpo sicuro, ideologicamente neutro, risoluto, insonne, scrambler for the best job; s’era distinto in una gara televisiva. Fa politica come i pesci nuotano, dal consiglio provinciale al Comune fiorentino, sindaco carismatico. L’orizzonte locale non gli basta: nelle primarie 2012 sfidava le gerarchie Pd; fallita da P. L. B. l’impresa elettorale, ritenta l’anno dopo, umiliando l’apparato sclerotico; raccoglieva i voti dei disgustati dalle «larghe intese», nel cui disegno era egemone il Caimano. Ha stravinto grazie all’apporto esterno. Definiva «rottami» i vecchi oligarchi, superstiti d’un ceppo postcomunista spretato (acquiescenti all’anomalia berlusconiana, tanto da ammettere immunità penali in spregio all’art. 3 Cost.). Nel sur place, o chiamiamolo marasma, del governo Letta junior, combinato e sorretto dal Colle, era presumibile che il leader venuto da fuori puntasse alle urne. Ma ecco il coup de théâtre: cade Letta; entra l’antagonista caricandosi l’eredità passiva; dinamismi giovanili rinsanguano intese consortili. È previsto un governo che, durando ancora quattro anni, rifondi lo Stato: esecutivo forte e Parlamento ubbidiente (se l’acconciano i partiti, ossia gli oligarchi); i «rottami» restano dov’erano, invulnerabili.
L’erede consulta B., senatore decaduto ma padrone dei voti forzaitalioti nella Camera alta, quindi partner determinante, ovviamente interessato, e constata «profonda sintonia», dandone atto; esordio malaccorto perché sappiamo cosa covi l’interlocutore: pubblico ministero governativo, tribunali e corti in riga, comode fughe dal processo. Che aria spiri, lo dicono persone chiamate al relativo dicastero (ministro e due sottosegretari). Eventi posteriori tolgono ogni dubbio. La Consulta ha due seggi vuoti: li assegneranno le Camere; uno spetta al Pd; Silvius Magnus indica l’altro. Correvano i nomi: Luciano Violante, illo tempore magistrato «politico» e duro comunista (lo chiamavano Visinskij, inquisitore moscovita 1936-38), da molti anni convola nel garantismo berlusconesco; mandandolo alla Corte, il Pd modifica i numeri in camera di consiglio su questioni capitali. (Particolare curioso: B. designa l’avvocato Nicola Ghedini, sua guardia del corpo, perché il candidato ex adverso gl’incute ancora paura; e se l’ostentata conversione fosse apparente?). Il tutto col beneplacito renziano ma l’accoppiata, dicono, trova difficoltà da parte dell’onnipresente patrono, fermo restando l’impegno Pd sul bolscevico mansuefatto. Era scelta strategica. La chiosano autorevoli esponenti: non fa più testo incontrovertibile l’evento giudiziario, quasi fossero infallibili gli autori; d’ora in poi varranno due canoni, «garantismo» (imperversava Torquemada?); e «autonomia della politica» ossia equazioni giuridiche fluide. Squadra le idee un esempio: l’art. 68 Cost. vieta gli ascolti del parlamentare non autorizzati dalla Camera, il cui voto rende inutile l’espediente investigativo; solo un idiota terrebbe ancora discorsi pericolosi; e se va a infilarsi in linee controllate, i relativi materiali contano o no secondo l’umore dell’assemblea, sovrana (l’art. 4 l. 29 giugno 2003 n. 140 è fiore berlusconiano). Supponiamo che l’indagante ascoltasse N, impresario d’Anonima Omicidi, e l’onorevole P, intercettato casuale, gliene ordini uno o anche due o tre, parlando terribilmente sul serio: se vuole, la Camera liquida l’episodio come scherzo tra buontemponi; al diavolo i dischi e non se ne parli più.
Pesa il dubbio che M. R. non sia uomo da battaglie frontali: lo vediamo scaltro, cauto, transigente, politico da lungo corso, col futuro baricentro elettorale in punti prossimi alle acque d’Arcore; meglio così che se regnassero il pirata en chef o suoi manutengoli, ma vampiri in colletto bianco succhieranno ancora sangue dall’esausta Italia. L’allora sindaco non lesinava i giudizi morali (v’erano incappati nomi del governo Letta). Speriamo che ritrovi la chiave.