Damiano Aliprandi, Il Garantista 23/7/2014, 23 luglio 2014
GIUSEPPE GULOTTA: «COSÌ HO VISSUTO I MIEI 36 ANNI DA INNOCENTE»
Giuseppe Gulotta oggi ha 56 anni. Quando ne aveva appena 18, nel 1976, è stato accusato di aver ucciso due giovani carabinieri che dormivano nella caserma di Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Arrestato, è stato costretto sotto tortura a confessare un reato mai commesso. Al processo di primo grado è stato assolto per insufficienza di prove, ma dopo vari gradi di giudizio è stato definitivamente condannato all’ergastolo nel 1990. Con lui furono accusati degli omicidi altri quattro ragazzi. Due fuggirono in Brasile per scampare al verdetto, uno venne ritrovato impiccato in cella, un altro ancora morì di tumore in carcere, privato delle cure in ospedale perché ritenuto un pericoloso ergastolano. Dopo 36 anni, di cui 25 trascorsi dietro le sbarre, Gulotta ha ottenuto la revisione del processo grazie alla confessione di un carabiniere. È stato assolto, come gli altri quattro, definitivamente nel 2012. Ad oggi attende ancora che lo Stato gli versi il risarcimento per l’ingiusta detenzione, anche se nulla potrà mai ridargli indietro tutti gli anni di libertà che la malagiustizia gli ha portato via.
Giuseppe, partiamo dall’inizio, da quella tragica notte del 27 gennaio 1976 ad Alcamo Marina. Iniziarono subito le indagini e dopo qualche giorno arrivarono a lei...
Ricordo bene quella data, era il 12 febbraio del ’76. Bussarono alla porta i carabinieri verso le 22, li feci entrare a casa e chiesero le mie generalità. Non avevo nessuna paura, avevo 18 anni e facevo il manovale. Non ho mai avuto nessun tipo di problema con la giustizia, ero un ragazzo tranquillo, senza grilli per la testa e avevo appena fatto domanda per entrare nella Guardia di finanza, tant’è vero che, ingenuamente, pensavo che i carabinieri fossero venuti proprio per quel motivo.
E invece?
Invece mi chiesero di seguirli in caserma, senza aggiungere altro né rispondere alle mie domande. Una volta in caserma mi fecero accomodare in una stanza e per circa un’ora mi lasciarono solo. Poi intorno alla mezzanotte arrivarono una decina di carabinieri, mi ammanettarono e legarono a una sedia: a quel punto ho avuto paura, non immaginavo assolutamente quello che poi mi sarebbe accaduto. Uno di loro cominciò a malmenarmi, prendendomi a schiaffi in faccia, poi qualcun altro con un calcio ribaltò la sedia e tutti insieme cominciarono a riempirmi di botte. Uno di loro cominciò ad urlare dicendomi che dovevo confessare dell’omicidio. Ogni tanto si fermavano e con calma e gentilezza mi invitavano a dire quella che secondo loro era la verità.
E lei?
Ovviamente rispondevo che non ne sapevo assolutamente nulla. E allora giù di nuovo con le botte. A quel punto svenni e mi risvegliai all’alba. Uno di loro mi buttò l’alcol in faccia per farmi riprendere e a quel punto, allo stremo, dissi che avrei detto tutto ciò che volevano. Uno di loro prese un foglio già compilato e me lo fecero firmare: quel verbale firmato fu la mia confessione che mi portò alla condanna. Col senno di poi, credo che sia stata tutta una messa in scena, che avessero già organizzato tutto fin nel minimo dettaglio. Prima di portarmi in carcere, i carabinieri si premurarono di cambiarmi l’abito che era tutto sporco di sangue e mi medicarono.
Quando fu interrogato dal magistrato in carcere continuò ad autoaccusarsi?
Assolutamente no. Davanti al Pm, Raimondo Genco, ritrattai tutto e gli raccontai quello che mi era accaduto in caserma. Ma a quanto pare non ci ha voluto credere, nonostante avessi qualche livido in faccia. I carabinieri mi avevano ripulito e medicato prima del trasferimento in carcere. Da quel giorno iniziò la mia prima carcerazione preventiva fino alla sentenza di primo grado che mi assolse per insufficienza di prove.
Poi i Pm ricorsero in appello...
Ricordo bene la data del processo di secondo grado: era il 1982. L’Italia vinceva i mondiali e io la prima condanna all’ergastolo. Da quel giorno ebbe inizio una lunga trafila giudiziaria, tra condanne e rinvii della Cassazione, in quel periodo ero in libertà, mi ero sposato e avevo dei figli da crescere. Il 1990 arrivò la sentenza della Cassazione che mi condannò definitivamente all’ergastolo e varcai nuovamente i cancelli del carcere. Mi crollò il mondo addosso, pieno di sconforto mi rassegnai: avevo perso ogni speranza per una eventuale revisione del processo.
Poi nel 2007 arriva una notizia inaspettata...
Sì, ero a casa con la famiglia perché per buona condotta ero riuscito ad ottenere la libera uscita. All’improvviso mi telefonò mia sorella e mi disse di accendere subito la tv e guardare la trasmissione “Blu notte” di Carlo Lucarelli: stava parlando della strage di Alcamo Marina e disse che un ex carabiniere aveva confessato le torture inflitte per estorcere le confessioni. Subito contattammo la Rai e ci rigirarono l’e-mail di una persona che si firmava col nome di Sedik74, il quale scriveva di non riuscire più a tacere e di voler raccontare la verità. La Procura di Caltanissetta avviò subito un’indagine e intercettò l’ex carabiniere. Era un certo Renato Olino, che aveva condotto le indagini con il reparto antiterrorismo.
A quel punto cosa ha fatto?
Con il mio avvocato mi recai in Procura e mi interrogarono: il mio racconto combaciava perfettamente con quello dell’ex carabiniere. A quel punto ottenemmo il processo di revisione. Il 13 febbraio del 2012 fui completamente scagionato da ogni accusa. Dopo 36 anni dal mio arresto, ero finalmente un uomo libero.
Anche gli altri sono stati assolti?
Sì, tutti. Anche Vesco e Mandalà, che purtroppo non hanno potuto assistere all’assoluzione visto che non erano più in vita.
Qualcuno avanzò il sospetto che Vesco non si fosse ucciso da solo...
Durante il processo emerse la testimonianza di un pentito, il quale affermò che si era trattato un suicidio simulato, che in realtà era ucciso su commissione della mafia con l’aiuto di qualche guardia carceraria. Del resto il suo suicidio risultò strano fin dall’inizio: fu ritrovato legato a una grata nel carcere di San Giuliano e con un fazzoletto in bocca. Ma pare che non sia stata fatta, al momento, nessuna indagine giudiziaria.
Perché, secondo lei, sarebbe stato ucciso?
Posso fare solo delle ipotesi. Probabilmente è stato testimone di ciò che avvenne alla caserma di Alcamo. D’altronde fu il primo ad essere arrestato, fu torturato anche lui per ottenere una confessione e fu lui a fare il nome mio e degli altri. Ci conoscevamo tutti, eravamo amici. Forse poi ha mostrato l’intenzione di parlare, raccontare la verità, per questo forse è stato ucciso simulando un suicidio. Le racconto un particolare: durante il processo della Corte d’appello uscì fuori che Peppino Impastato all’epoca si stava occupando proprio della tragedia di Alcamo. Il giorno dopo che venne ucciso, il fratello fece sapere che tra il materiale sequestrato c’era anche un suo dossier su quella vicenda: documenti mai più ritrovati.
Giuseppe, tramite i suoi avvocati ha chiesto un risarcimento di 69 milioni di euro per ingiusta detenzione. A che punto è la richiesta?
Sono passati due anni e la magistratura che deve esaminarla ancora non ci convoca in udienza. I soldi non potranno ridarmi mai tutti questi anni sequestrati dallo Stato. Gli anni migliori, una vita rubata, il lavoro definitivamente perso. Spero solo che la politica faccia qualcosa affinché anche i magistrati paghino per i loro errori: voglio che siano più attenti quando giudicano una persona. Intanto se riusciremo ad ottenere il risarcimento, costituiremo una fondazione per dare voce alle vittime di questi errori. Soprattutto quando si rimane soli e senza aiuto è una tragedia, mi creda.