Roberta Zunini, il Fatto Quotidiano 23/7/2014, 23 luglio 2014
BAR RAHAV E I SUOI FRATELLI. «MOLLO TUTTO PER LA GUERRA»
Avrebbe potuto continuare i suoi allenamenti ndi pallanuoto, ma Bar Rahav, il ventunenne capitano del Kiryat Tiv’on e membro della nazionale israeliana, ha preferito vestire la mimetica e raggiungere i suoi coetanei nell’arsura di Gaza. Non ha sfruttato la possibilità di essere esonerato per meriti sportivi perchè riteneva un dovere morale raggiungere i suoi coetanei al fronte. Essendo ancora un cadetto, è morto mentre stava seguendo l’addestramento per diventare un ufficiale del Genio militare israeliano, colpito insieme al suo contingente da un missile sparato da un autocarro nell’area di Ramat Yishai. Bar Rahav però sarà sepolto con i gradi di sottotenente.
La guerra è una trappola dentro cui i tanti israeliani che ne hanno orrore sono finiti e finiscono. Così anche i cittadini giusti e responsabili di Israele, i giovani come il giovanissimo Rahav, si trovano costretti a scegliere tra l’orrore di dover uccidere anche persone innocenti e il senso di colpa che proverebbero se non andassero a condividere la stessa sorte dei loro concittadini. Quando i missili del nemico iniziano ad arrivare, è già troppo tardi. E bisogna scegliere. Chi non sceglierebbe di difendere la propria famiglia, che magari non ha mai votato per chi siede al governo e ha sempre pensato che anche i palestinesi abbiano diritto a uno Stato dove vivere in pace? Lo pensava anche Uri Grossman, il figlio dello scrittore e intellettuale David, una delle coscienze critiche di Israele, un sionista che ha sempre riconosciuto i diritti dei palestinesi e non manca di partecipare ogni venerdì alle manifestazioni contro gli sfratti illegali dei profughi del ’48 a Gerusalemme Est. Uri, anche lui ventunenne, è morto dentro un carrarmato colpito da un missile di Hezbollah durante l’ultima guerra con il Libano. Anche il figlio quarantenne di Avraham Yeoshua, che da anni predica nel deserto il dialogo diretto con Hamas, il compromesso con il “nemico”, sta combattendo a Gaza. Il padre, come tutti i padri, ora vive nell’ansia per la sua sorte. Ma quando è il momento bisogna andare. Ci sono però giovani uomini come Yeremiahu Liban, un ebreo francese che ha deciso di rifiutare questa logica: a 17 anni aveva lasciato la Francia per andare in Israele a fare il servizio militare. “Credevo di difendere il Paese dei miei avi ma negli anni ho capito che avevo sbagliato. Cosa stiamo difendendo con le armi? L’industria bellica, non la nostra incolumità e nemmeno quella dei figli che avrò. Se oggi mi richiamassero per andare a combattere , preferirei subire un processo e stare in galera tutta la vita piuttosto che ammazzare un bambino, un essere umano. Rifiuto la logica delle armi, della violenza. Questa non è autodifesa, è un massacro causato dalla malafede dei nostri politici”. Come Yeremy ce ne sono altri. Che in questi giorni hanno manifestato in piazza Rabin a Tel Aviv e sono stati picchiati, come Barak Cohen, dagli ultranazionalisti, arrivati poco dopo l’inizio delle manifestazioni, sotto gli occhi rivolti altrove della polizia. Ci sono attrici e artiste note come Oran Banay o Orly Weinerman, che hanno subito insulti di ogni genere per aver espresso il loro dissenso. Ma ci sono soprattutto i refusnik, i ragazzi e le ragazze che si rifiutano di fare il servizio militare, che non prevede esoneri, se non per malattia mentale e incompatibilità fisica. Una scelta che comporta 80 giorni di carcere e l’impossibilità di lavorare nel settore pubblico.
Roberta Zunini, il Fatto Quotidiano 23/7/2014