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 2014  luglio 23 Mercoledì calendario

LA TRAPPOLA TEDESCA CHE FRENA L’EUROPA

Facciamo tutti fatica ad accettare che le economie nazionali non siano isole. Il recentissimo giudizio del Fondo monetario sull’economia tedesca per esempio è di sorprendente ottimismo: solidi fondamentali, bassi debiti, riforme compiute e disoccupazione ai minimi storici. Gli economisti di Washington hanno addirittura aumentato le previsioni di crescita. Eppure negli ultimi mesi, non appena mancato il traino della domanda estera, anche l’economia tedesca si è fermata di colpo. Presa isolatamente un’economia può essere astrattamente salda, ma nel contesto degli altri paesi diventa realmente vulnerabile.
La frenata tedesca ha colto di sorpresa gli analisti, la cui risposta in questi casi è «bisogna attendere altri dati». Tuttavia anche la Bundesbank ha ammesso che l’economia ha perso la sua dinamica. Se è così, un vecchio dubbio torna lecito: forse un modello come quello tedesco centrato su risparmio ed esportazioni è più vulnerabile di quanto si creda. Quando poi si tratta dell’economia più grande dell’area euro, il modello "aspira-tutto" - sia risparmi sia consumi dall’estero - diventa poco sostenibile: l’intera area euro si ferma quando la Germania va male, ma non cresce quando va bene. Alla fine il meccanismo si avvita.
Nell’euro area, i partner della Germania patiscono un vuoto di domanda, non dispongono di alcun margine di manovra fiscale e sono immersi nella trappola della liquidità che rende inefficaci i bassi tassi d’interesse. L’idea che la competitività tedesca consenta di estraniarsi dai problemi dei vicini europei e di sopravvivere grazie ai "Brics" si scontra con nuove previsioni negative sui paesi emergenti e con l’acuirsi delle tensioni geopolitiche dalla Russia al Medio-Oriente. L’eventuale debolezza dell’economia tedesca metterebbe in dubbio l’intera strategia di soluzione dell’euro-crisi, centrata sul recupero di competitività (risparmio ed export) da parte dei paesi vulnerabili.
La cattiva notizia della frenata tedesca può servire a ragionare su una migliore strategia.
Secondo stime pubblicate dal Diw, un centro di ricerca berlinese, all’economia europea mancano ogni anno investimenti per circa 180 miliardi di euro, pari al 2% del Pil. È più o meno l’equivalente dell’eccesso di risparmio netto tedesco e del surplus di bilancia dei pagamenti nella media degli ultimi 8 anni (quello del 2013 è più alto: 206 miliardi). Uno studio del Cepii francese giunge a conclusioni simili, denunciando il dimezzamento degli investimenti pubblici europei dal 2008 a oggi e il mancato traino agli investimenti privati. Il Fondo monetario vede un parallelo tra l’aumento dei risparmi delle famiglie tedesche e il calo degli investimenti delle imprese in Germania e prevede che l’eccesso di risparmio venga assorbito solo nel 2019 e solo per metà: è difficile non vedere nella politica economica tedesca una parte dei problemi europei.
L’aumento dei risparmi delle famiglie tedesche è cominciato con la riforma delle pensioni del 2000 che creò timori per il reddito futuro. Da lì nasce anche la retorica dell’insuccesso degli altri Paesi dovuto al rifiuto di sacrifici altrettanto sanguinosi. Spesso i sacrifici servono, ma oltre un certo livello instaurano una spirale pessimista: la recente "contro-riforma" Merkel che abbassa l’età del pensionamento infatti non ha avuto un effetto di incoraggiamento alla spesa; negli ultimi due anni inoltre i salari sono tornati a crescere in linea con la produttività, ma non si sono visti effetti significativi sui consumi. Imprese e famiglie tedesche hanno internalizzato elementi di incertezza legati all’invecchiamento della popolazione e alla sensazione che il Paese sia circondato da rischi non controllabili.
Anche il successo delle imprese non è servito ad aumentare i consumi: le riforme fiscali di Schroeder avevano infatti ostacolato la distribuzione dei dividendi e favorito l’autofinanziamento, ma la debolezza dei consumi ha indotto le imprese a investire più all’estero che all’interno. Il risultato è che l’economia tedesca non cresce quanto potrebbe, ma è doppiamente esposta al ciclo internazionale: sia per l’incidenza del commercio estero, sia per qualche problema che emerge nella redditività del capitale investito. Nei giorni scorsi, ad esempio, per la prima volta da anni Volkswagen ha lamentato una redditività bassa (2%) attribuita ai problemi di gestione di un’impresa geograficamente molto dispersa. I sondaggi tra le imprese tedesche segnalano la volontà di rimpatriare parte degli investimenti, proprio come avviene negli Usa. Non è certo tuttavia che l’area euro ne sappia approfittare. Quella che si è creata è infatti una trappola psicologica. La ripresa di fine 2013 doveva ricostruire un clima di fiducia tra i Paesi dell’euro. Ma a quanto pare non riesce a crearne nemmeno al loro interno. Le dinamiche politiche che si sono incrostate a livello nazionale non sembrano in grado di rompere questa sfiducia a largo raggio.
Un’iniziativa di rilancio degli investimenti nell’area euro sarebbe invece di beneficio sia per i creditori sia per i debitori. Ma per essere accettabile richiede di essere fondata su un patto fiduciario. Per questo da parte italiana è stato un grave errore centrare il confronto politico europeo sul tema della flessibilità. Avremmo dovuto fare il contrario, ma ponendo la condizione che il governo tedesco si assuma – per il proprio stesso vantaggio – la responsabilità di un vasto programma di investimento europeo.
Carlo Bastasin, Il Sole 24 Ore 23/7/2014