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 2014  luglio 23 Mercoledì calendario

SOLDI E SCAMBIO DI PRIGIONIERI COSÌ SI TRATTA PER I SOLDATI MORTI


Missing in action, disperso. Con questo termine volutamente ambiguo, il ministero della Difesa a Tel Aviv ha praticamente confermato che un soldato israeliano probabilmente morto è nelle mani di Hamas. Le circostanze sono ben diverse dal rapimento di Gilad Shalit ma la vicenda si traduce in un incubo per la famiglia del militare e per il premier Netanyahu. Prima o poi dovrà venire a patti con il movimento islamico che controlla Gaza e il prigioniero, o il suo corpo, è una carta nelle mani di Hamas che ieri sera ha chiesto in cambio della sua restituzione «la liberazione di prigionieri palestinesi».
Oron Shaul viaggiava a bordo di un blindato entrato sabato notte, con molti altri, a Sayaja il quartiere periferico di Gaza City teatro degli scontri più cruenti. Nelle prime ore di domenica il mezzo è rimasto bloccato, sembra per un guasto. Un soldato e un ufficiale scesi per risolvere il problema sono stati attaccati e un razzo anticarro ha centrato il mezzo. L’ufficiale, ferito, è stato soccorso. Per i soldati a bordo non c’era nulla da fare: quello che restava dei loro corpi è stato portato in Israele. Domenica sera, Hamas annunciava di aver catturato un soldato. Faceva nome e cognome e matricola. Ai festeggiamenti spontanei nelle strade di Gaza e in Cisgiordania corrispondeva il silenzio di Israele che soltanto ore dopo, per bocca del suo ambasciatore all’Onu, smentiva la notizia. «Un’altra bugia di Hamas». Ieri la nuova versione. «Dopo aver ricomposto i corpi dei soldati uccisi», annunciava il portavoce, ne risultava uno in meno.
La storia degli scambi di prigionieri, vivi o morti, tra Israele e i palestinesi (o Hezbollah in Libano) è lunga è complessa. L’attuale conflitto ruota anche attorno a una di queste vicende, cominciata con Galid Shalit, il caporale rapito vicino al confine nel 2006 e rilasciato nel 2011 in cambio di 1027 palestinesi nelle carceri israeliane. C’è un contratto non scritto tra lo Stato e i giovani coscritti. L’esercito «non abbandona sul campo i soldati feriti» e anche se catturati «Stato e forze armate faranno di tutto per riportarli a casa». Fino a quando Israele trattava con i governi dei paesi arabi in guerra, lo scambio negoziato di pochi israeliani per molti nemici nel quadro di una trattativa più vasta (una tregua duratura o la pace) aveva un senso. Quando, invece, Israele ha voluto riportare a casa i suoi soldati catturati dalle milizie palestinesi o libanesi, o i loro corpi, l’equazione è cambiata mettendo il «paese in una condizione di inferiorità», rilevò anni fa il generale Giora Eiland, l’allora capo del Consiglio di sicurezza nazionale.
I PRECEDENTI
Nel 1979 un soldato catturato in Libano tornò a casa grazie al rilascio di 76 palestinesi. Nel 1985, tre soldati in cambio di 1150. Vivi per vivi, ma anche vivi per morti o morti per morti. Nel 1991 il corpo di un soldato druso israeliano ucciso in Libano fu riportato a casa in cambio di due palestinesi. Sei anni più tardi, i corpi di due militari uccisi in Libano furono scambiati per quelli di 123 combattenti libanesi che erano stati sepolti in una località segreta in Israele in attesa di essere usati come merce di scambio. E così via. Quando Galid Shalit fu liberato era chiaro che Hamas e Jihad islamica avrebbero fatto di tutto per rapire altri soldati o civili. Pochi mesi fa, Netanyahu bloccò il rilascio di alcune centinaia di detenuti anche se la loro liberazione era stata concordata con il presidente palestinese Mahmoud Abbas. Hamas li vuole ora. E vuole i cinquanta suoi militanti che erano stati rilasciati da Netanyahu e rimessi in carcere dopo l’uccisione dei tre seminaristi ebrei nei pressi di Hebron.