Paolo Franchi, Corriere della Sera 23/7/2014, 23 luglio 2014
IL MINISTRO E LA CITAZIONE DI FANFANI, IL DC CHE PIACEVA TANTO A SINISTRA (+ BOX)
La citazione non è particolarmente affascinante, «in politica le bugie non servono» è una banalità. Amintore Fanfani, che amava autocitarsi in terza persona («come l’allora segretario politico ebbe a dire»…) ne avrebbe scelta di sicuro una più intrigante. Magari sul tipo del «Non ho più francobolli» che nei primi anni Settanta fu a lungo il tormentone di Alto gradimento , il programma radiofonico cult di Renzo Arbore e Gianni Boncompagni. Ma ascoltare il suo nome che irrompe di nuovo a Palazzo Madama, e sentirlo rappresentare da Maria Elena Boschi come «un grande statista, un grande presidente di questa assemblea, un punto di riferimento per tante donne e uomini della mia terra, compreso mio padre» colpisce ugualmente. Anche perché la terra di cui parla la Boschi non è solo la provincia di Arezzo, di cui è originaria come Fanfani (lei di Montevarchi, lui di Pieve Santo Stefano) ma, più in generale, la Toscana. E insomma la citazione, anche se certo il ministro non la avrà concordata con il presidente del Consiglio, porta dritto dalle parti di Renzi. Che Fanfani però, almeno sin qui, si è ben guardato dal nominarlo. Nonostante svariati cronisti e commentatori, compreso, su Formiche , Massimo Bordin, il parallelo lo abbiano tracciato: tutti e due segretari del partito di maggioranza e presidenti del Consiglio nel medesimo tempo, tutti e due decisionisti e, naturalmente, tutti e due nutriti di esprit toscano, anzi, toscanissimo.
Ad averne voglia, si potrebbe anche discutere sulle analogie tra i due personaggi. Comunque la si pensi in proposito, però, è il caso di segnalare che il raffronto è di quelli scottanti. Specie per la sinistra, o almeno per una sinistra che serbasse qualche memoria di sé. Perché è vero, il referendum sul divorzio del 1974 ha consegnato l’immagine di un Fanfani vanamente impegnato in un disperato tentativo di rivincita dell’Italia profonda sul Sessantotto e sulla società radicale. Di un Fanfani di destra, insomma, una specie di De Gaulle nostrano, ma piccoletto (lui preferiva definirsi brevilineo, e dei brevilinei, Napoleone in testa, decantava le virtù) e, soprattutto, integralista. Ma nei Cinquanta, nei Sessanta e nel primo scorcio dei Settanta le cose erano state molto meno chiare. In politica estera (alla Farnesina i suoi discepoli erano noti come i mau mau) e ancor più in politica interna. I modi dell’ex «professorino» sodale di Giuseppe Dossetti non erano commendevoli. Nel 1954, per esempio, lanciato alla conquista della Dc post degasperiana, non mancò di giocare spregiudicatamente sul coinvolgimento di Piero Piccioni (in seguito scagionato) nell’affaire Montesi, per liquidare il padre, Attilio, e con lui tutta la generazione dei vecchi popolari. E probabilmente ispirò, nell’incandescente estate del 1964, l’inquietante editoriale del Tempo in cui l’altro «cavallo di razza» democristiano, Aldo Moro, il presidente del Consiglio tenuto sotto tiro dal capo dello Stato Antonio Segni e dal generale Giovanni De Lorenzo, era descritto come «un piccolo Visir cupo, funereo», che procede «con la tecnica scivolosa e molle di una piovra». Ma la sua Dc organizzata a ricalco del modello comunista, interventista in economia, votata all’occupazione del potere su scala di massa, mirabilmente incarnata nella Rai di Ettore Bernabei, fu protagonista di una rivoluzione dall’alto che cambiò il Paese. E il suo governo delle «convergenze parallele», dopo l’avventura di Fernando Tambroni, produsse riforme molto più «di sinistra» del cosiddetto centrosinistra «organico» degli anni successivi: dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica alla scuola media unica. Agli occhi della destra, se non era un «comunistello di sacrestia», poco ci mancava.
Tutto questo, e molto altro ancora, ha qualcosa da spartire anche con il fatto che, quando nel 1964 si trattò di scegliere per il Quirinale tra Giuseppe Saragat e Fanfani, la segreteria del Pci si spaccò in due, quattro contro quattro, con Pietro Ingrao schierato dalla parte del secondo: decisivo risultò, alla fine, il voto del segretario Luigi Longo. Sette anni dopo, Fanfani provò ancora a ottenere il consenso dei comunisti, e trovò non solo a Mosca, ma pure a Botteghe Oscure, orecchie ricettive. Per toglierlo di mezzo, partì anche una campagna di massa contro il «fanfascismo», promossa da Lotta Continua e sostenuta dal Manifesto. Ad annullare la scheda scrivendoci su «Nano maledetto, non sarai mai eletto» fu però un deputato della destra, non Luigi Pintor, come pure si favoleggiò.
Sorge un dubbio. Forse la Boschi non aveva idea del ginepraio in cui si stava cacciando: oltre tutto, le bugie Fanfani le diceva, eccome. Fortunatamente per lei, le parole della politica si sono fatte volatili.
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CHI È AMINTORE FANFANI
La carriera
Nato in provincia di Arezzo nel 1908, Amintore Fanfani è stato uno dei più noti e longevi leader della Democrazia cristiana. All’inizio della sua carriera politica fu ministro del Lavoro, dell’Agricoltura e degli Interni con De Gasperi, è stato due volte ministro degli Esteri, segretario della Dc. È stato presidente del Consiglio per cinque volte in un arco di tempo dal 1954 al 1987
In Senato
Ha presieduto l’aula del Senato per tre volte: dal 1968 al 1973, dal 1976 al 1982 e dal 1985 al 1987. Nel ‘72 fu nominato senatore a vita dal presidente della Repubblica Giovanni Leone