Mimmo Gangemi, La Stampa 23/7/2014, 23 luglio 2014
ISCHIA, C’ERA UNA VOLTA IL TONDO DEL RE BOMBA
Il vascello di Ferdinando II di Borbone, re delle due Sicilie, gettò l’ancora nell’insenatura ombrata dalla rupe con l’imponente castello aragonese, quello rimasto per secoli in gola a turchi e saraceni. Era un primo pomeriggio del tardo autunno del 1852. Giornata fresca ma non fredda, cielo con nuvole striate e chiare, senza pioggia. E pancia del re, già settimina di suo, ingolfata dal ben di Dio ingurgitato a pranzo – il rullio del mare a indurre impazienza a un appetito che mai gli difettava. A ogni austero passo reale, le assi in legno del ponte lamentarono scricchiolii e gemiti contorti. E così quelle della scaletta per il trasbordo sulla barca che l’avrebbe portato in terraferma, che poi terraferma non era, trattandosi dell’isola d’Ischia.
Nell’allungare l’ultimo passo, il patatrac: le mani solerti dei marinai che ne confortavano la discesa e dei pescatori che lo accoglievano tanto solerti non si rivelarono. Ma forse a scomporsi fu il re, per lo sbilanciamento su un lato del ventre prossimo a sgravare, o per il peso – «se la patta con una vacca da latte» dissacravano i marinai con nascosti risolini – peraltro accentuato dalle decorazioni sul petto, che facevano della divisa quasi una corazza. Fatto fu che poggiò il piede in fallo e che l’aria a mezzo tra il vascello e la barca non lo resse, come avrebbe dovuto con un re. E Ferdinando II rovinò in acqua, con la divisa, le decorazioni, la pancia settimina. Porse occhi spaventati, affondati nelle guance grasse e molli da putto, l’attimo prima di scomparire sotto. La stazza poderosa sollevò un ribollio di schiuma e spruzzi che s’inerpicarono fino al ponte della nave. E allargò cerchi concentrici che si placarono a ridosso del camminamento tra il borgo e il castello. Al posto dell’augusta figura, venne su un turbinio di bollicine.
Si tuffarono per ripescarlo. Il re riapparve all’aria fiammeggiante di quegli sguardi sanguigni già visti al tempo in cui divenne «re bomba», dopo aver fatto bombardare la rivoltosa Messina fin quasi alla distruzione, in un’ingiuria che s’addiceva pure alla stazza. Lo trassero su. Boccheggiava in cerca di fiati. Il seguito non fu mai dimenticato da quanti lo subirono. Se ne parla tuttora sull’isola. E c’è chi giura che, in certe notti senza luna e stelle, e con il vento, dentro le folate si avverte il sibilo delle scudisciate.
Il porto d’Ischia nacque per quella rovinosa caduta. Sbollita la rabbia, re Ferdinando decise infatti di realizzare un approdo sicuro. Non era nemmeno complicato: bastava tagliare un canale tra il lago interno e il mare a ridosso, bastava anzi allargare quello stretto stretto già esistente, realizzato per consentire il ricambio delle acque stantie e paludose – e poi abbassare i fondali. Commissionò subito il progetto e i lavori: non intendeva rinunciare alla caccia, uno spasso senza uguali sparare alle folaghe, che lì abbondavano, di più nel lago interno, rotondo da parere tracciato con il compasso e con un isolotto in mezzo, tondo – e Tondo chiamavano quell’isola dentro l’isola. Le folaghe lì erano stanziali, per il clima mite, per il cibo abbondante – alghe, piccoli pesci, molluschi – per le acque quiete, con piante acquatiche e canne palustri. Il re le sparava al volo, al principio del volo, mentre spingevano forti colpi d’ala per abbattere la resistenza del peso e alzarsi in lenta accelerazione. Non erano un bersaglio complicato. Ma lui non ci sapeva fare granché, feriva l’aria, ci prendeva di più un orbo. Forse da posato, su un ramo denudato dall’autunno, avrebbe riscosso qualche successo. Ma era un re. E a un re non si confaceva degradarsi a una caccia da plebe, a un’imboscata senza gloria. Né a un re era dato sfigurare. Apposta lo soccorrevano: c’era sempre uno abile che accompagnava il suo sparo con un altro in simultanea e, se talvolta cadeva un uccello diverso da quello puntato, Ferdinando si limitava a grattarsi, dubbioso, la nuca.
Il lago era un antico cratere sprofondato a causa di un terremoto e che in seguito s’era colmato d’acqua. All’interno, un isolotto circolare, il tappo del cratere – il Tondo – con una casa abitata piazzata sopra, stando a Plinio. Oggi è rimasta solo una struttura cilindrica bassa sulle acque. Raccontano le cronache che nel 140 d. C. il futuro imperatore Marco Aurelio chiese al suo maestro Frontone il senso di quell’isola in mezzo a un lago a sua volta ristretto dentro un’isola più grande. Frontone adattò abilmente la stravaganza della natura alla situazione del giovane Marco: come l’isola grande ripara il tondo dalle insidie del mare, così l’imperatore padre tiene lontano dal principe ereditario le preoccupazioni del governo.
Una storia curiosa, e tutta rotonda: rotondo il lago, rotonda l’isola dentro l’isola, rotondo il re, rotonda persino la sua morte, che si dice dipese dall’obesità.
Ora il Tondo rischia di tornarsene nelle viscere della terra che l’ha partorito. È malandato, molto più di quando, sul finire degli Anni 60, a Ischia passavo vacanze indimenticabili, ospite di cugini, e mio padre mi sollecitava a tornare al paese ai primi rialzi dell’Aspromonte – «ché c’è la festa» – e io, inebriato dalle luci e da una gioventù che non credevo potesse essere goduta così, «qua è festa tutti i giorni» mi negai.
Il Tondo ha crepe profonde, con diffuse lesioni perimetrali che lo minano fino a 15 metri di profondità. Rischia di collassare già al debole impatto delle onde causate dal traghetto. Danni che si aggiungono all’infelice idea di mutilarlo della sua insularità con la ricostruzione del pontile prima destinato a essere abbattuto. Cruda cecità proseguire in lassismi e intenti che priverebbero di un pezzo di storia, di un simbolo, con il Tondo che non sarebbe più l’isola dentro l’isola, ma uno scoglio anonimo.
In un dipinto dell’Ottocento, il lago interno dell’isola d’Ischia, con il Tondo ancora ben visibile al centro