Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  luglio 23 Mercoledì calendario

IL TRENO COI CORPI A KHARKIV MA È GIALLO. «NE MANCANO 82»

Dopo un viaggio di 17 ore in territorio ribelle il treno delle vittime del volo MH17 è approdato a Kharkiv, area sicura controllata da Kiev, in una vecchia fabbrica sovietica di carri armati abbandonata, e oggi le salme dovrebbero volare in Olanda. Non c’è ancora certezza sul numero delle salme pervenute, ieri il sospetto era che ne mancassero 82 all’appello (su un totale di 298), uno strazio per i parenti, ma mancano conferme. E sul sito dello schianto, fa sapere l’Osce, resterebbero ancora «piccole parti di corpi», che nessuno si preoccupa di raccogliere; e alcuni pezzi del relitto sarebbero stati «segati a metà».
A Sud, nella Donetsk di nuovo assediata dalle truppe ucraine, i ribelli continuano a negare ogni responsabilità nell’abbattimento dell’aereo. Proprio mentre emergono testimonianze di civili locali che avrebbero visto giovedì, giorno della tragedia, un sistema antimissile molto simile al Buk passare per le vie di Torez.
«Sono tutte sciocchezze: non avevamo motivo di abbattere l’aereo, non ne avevamo i mezzi tecnici, che invece ha Kiev», dice Alexander Borodai, «premier» della autoproclamata Repubblica ribelle, all’undicesimo piano del suo quartier generale, l’ex Palazzo della Regione. Fuori dall’ufficio, i soliti miliziani armati torvi e rozzi. Dentro, aria di Mosca. Una segretaria bellissima porta il caffè: sandali bassi, abito giallo lungo fino ai piedi, capelli acconciati come per un matrimonio. Dalle pareti, il ritratto di Putin pende accanto a quello di Borodai, ex consulente finanziario prestato alla politica, editore di un giornale russo ultranazionalista, e per molti un’agente dell’Fsb. Lui ha sempre negato: «Nessun legame col Cremlino, solo patriottismo». L’altro ieri, a notte fonda, ha consegnato ai malesi le scatole nere in una cerimonia davanti alle telecamere allestita apposta per dare legittimità alla Repubblica separatista che nessuno riconosce (nemmeno Mosca): «È il primo riconoscimento internazionale, ora c’è un documento che attesta i nostri rapporti con uno Stato straniero importante», spiega Sergey Kavtaradze (probabile nom de plume, lo stesso di un rivoluzionario georgiano amico di Stalin), membro del Consiglio di sicurezza dei ribelli e rappresentante del «premier». Giovane, aria intellettuale, laureato in Storia con una tesi sul Peacekeeping russo, come il suo capo Sergey è un moscovita doc: lo avevo incontrato in Crimea a marzo, nei giorni dell’annessione alla Russia, consulente-ombra del locale leader secessionista Aksionov. Rivoluzionari di professione. Non si aspettava che le cose andassero in questo modo, dice: «In confronto, la Crimea era un viaggio d’affari». Nella sua stanza, un kalashnikov appoggiato al muro dietro la scrivania: «Non esco mai senza», scherza. Alla tv scorre Life News, il canale ritenuto vicino all’Fsb russo.
Da Kiev il presidente ucraino Poroshenko ha appena chiamato la nazione alle armi. Vuol farla finita coi ribelli una volta portati via i corpi? «Lui non riesce a battere le nostre milizie, anche se numericamente l’esercito di Kiev è molto superiore, perciò richiama forze extra, per ottenere crediti dall’Occidente: l’Ucraina è sull’orlo del collasso economico, e lui riceverà quei soldi solo se risolve la situazione nell’Est: vuole il genocidio del popolo del Donbass», risponde Borodai concitato: in città è di nuovo battaglia, all’aeroporto e in direzione Gorlovka, dove si starebbe ammassando l’ala militare dei separatisti.
E mentre anche gli esperti dell’Organizzazione internazionale dell’Aviazione civile arrivano sul sito della tragedia, i ribelli insistono: «Noi non ostacoliamo le indagini, abbiamo dato pieno accesso, gli ucraini invece hanno fatto di tutto per trattenere gli esperti malesi a Kiev, hanno rifiutato di dargli un’auto, pensate, e quelli hanno affittato un’autobus privato per venire qui».
Possibile una tregua? Ieri Putin ha promesso di esercitare la propria influenza sui ribelli per spingerli a cooperare, ma ha anche chiesto all’Occidente di fare pressione su Kiev per un cessate il fuoco. Ma Borodai è netto: «Non lasceremo Donetsk».