Alfredo Luzi - Tullio De Mauro - Corrado Augias, la Repubblica 23/7/2014, 23 luglio 2014
la Repubblica 16 luglio 2014 Caro Augias, ho letto su Repubblica il bellissimo articolo di Guido Ceronetti sul degrado della lingua italiana
la Repubblica 16 luglio 2014 Caro Augias, ho letto su Repubblica il bellissimo articolo di Guido Ceronetti sul degrado della lingua italiana. La crisi della lingua è la traccia più evidente della crisi di una civiltà. È mai possibile ascoltare un parlamentare che nel suo intervento pronuncia parìa invece di pària? Che il corrispondente da Napoli dica che ci sono ancora «distaccamenti» di cornicione invece di «distacchi»? Si tratta forse di distaccamenti di polizia o di uffici comunali? È mai possibile che l’italiese (italiano-inglese) abbia raggiunto livelli insopportabili per cui è sufficiente che qualcuno un giorno dica selfie e tutti a ripeterlo? È mai possibile che ormai tutti scrivano da invece di dà quando si tratta di forma verbale o che sia ormai passata la regola di non utilizzare il trattino nelle parole composte per cui leggiamo maxi truffa, mini appartamento, etc? Mi dispiace constatare che nemmeno Repubblica è esente da questi errori. Il linguaggio dei politici è infarcito di «metterci la faccia», «scendere in campo», «ce lo chiede l’Europa», «i gufi». Aveva ragione Calvino quando ammoniva sul rischio di una «peste del linguaggio che si manifesta nella perdita di forza conoscitiva». Alfredo Luzi Università di Macerata Che dire allora dell’uso dilagante di “piuttosto che” invece del semplice “o” disgiuntivo? Del pronome “ne” gettato a piene mani? “Di questo ne abbiamo già parlato”? La storia è nota, ce ne siamo occupati anche in questa rubrica. La lingua che parliamo ci è madre e fonda la nostra identità. Il deputato che dice “parìa” dovrebbe girare con due orecchie d’asino attaccate alla testa. Casi di cattive scuole e di scarse letture. Ma il fenomeno è più vasto. Un paio d’anni fa consultai il professor Tullio Di Mauro cercando lumi. Mi rispose invitandomi a prendere atto che una lingua appartiene ai parlanti, per cui nel suo uso vale la presa di possesso della maggioranza. Ogni volta che s’è cercato d’imporre delle regole in materia si è caduti nell’inefficacia o nel ridicolo. Tipico del ventennio fascista: Si deve dire “musica sincopata” e non jazz. Parole al vento. La conclusione è che se la maggioranza dei proprietari della lingua comincia a dire “selfie” non c’è niente da fare, bisogna che selfie sia. Mettersi a combattere contro selfie è inutile. Si tratta di una patologia incurabile come scrive Ceronetti? È certamente una prova di debolezza cedere così prontamente all’invasione di parole americane. D’altra parte gli oggetti che quelle parole indicano vengono spesso da lì. Come si fa a rendere in italiano “smartphone”, per esempio? Provo a dire: intellifono. Fa ridere? Sì. Potrebbe fare meno ridere se cominciassimo tutti a usarlo? Non lo so. Forse bisogna davvero rassegnarsi, magari sfogandosi ogni tanto sulle colonne di un giornale. Corrado Augias la Repubblica, 19 luglio 2014 Caro Augias, la ringrazio per avermi ricordato che anche in fatto di uso dell’italiano dobbiamo rassegnarci. Non sono contro l’uso delle parole straniere quando designano un oggetto dapprima inesistente – non pretendo che si dica "topo" invece di "mouse". Ma perché dire selfie invece di autoscatto, sentiment invece di sondaggio d’opinione, task force invece di gruppo di intervento, showroom invece di sala espositiva? Eccetera. Nessuno chiede che ci sia una politica linguistica di tipo fascista. Ma perché coloro che hanno il dovere di salvaguardare la lingua vi rinunciano? In tv qualche giorno fa un intervistato ha detto che la vita bisogna «gòdersela»... pensi che fatica pronunciare una parola ultra-proparossitona. Anni fa un ministro italiano ebbe la bella idea di istituire la "sanity card". Un collega canadese mi scrisse chiedendomi per quale ragione il governo aveva deciso di fare una indagine sulla salute mentale di tutti gli italiani. Non solo usiamo l’inglese invece dell’italiano ma lo usiamo anche male. Perché non chiedere all’illustre Tullio De Mauro di intervenire dopo l’articolo di Ceronetti e la mia lettera chiarendoci un po’ le idee? Temo che ormai più che parlare siamo parlati, come temeva Wittgenstein. Alfredo Luzi alfredoluzi@alice.it L’idea del professor Luzi di tirare in ballo Tullio De Mauro mi sembra giusta, spero che accetti di dire la sua dopo il grido lanciato qualche giorno fa su questo giornale da Guido Ceronetti a proposito del cattivo uso dell’italiano. Temo che nemmeno De Mauro avrebbe il potere di fermare o anche solo di far rallentare il massacro, ma già saperne di più sulle cause e sui precedenti storici potrebbe lenire un po’ il disagio. Quanto al merito, colgo nella lettera del prof Luzi due aspetti che a mio parere vanno separati. Gli errori o spropositi e il cedimento supino agli anglicismi. Sui primi c’è solo da richiamare le cattive scuole e/o le scarse letture di una classe dirigente anche per altri aspetti mediocre. Sul secondo aspetto più volte i lettori sono intervenuti in questa rubrica per segnalare quanto meno i casi più ridicoli. Per esempio: la formula "spending review" è chiaramente stata adottata perché la parola "tagli" è più brutale e fa paura. Adottata per insicurezza, insomma, o viltà. È invece incomprensibile in nome di che sia esistito un ministero denominato del "welfare". Ovvero si capisce solo con la supina acquiescenza alla lingua dominante. Vado ancora più in là, visto che il prof Luzi mi sfida. "Funzionamento digitale" in italiano ha un senso diverso da quello corrente. In inglese "digit" vale (anche) "cifra" (" The number 1-2 has two digits "). Noi dovremmo dire funzionamento numerico. Ma se tutti dicono e scrivono "digitale" caro professore possiamo solo rassegnarci. Corrado Augias la Repubblica, 23 luglio 2014 Caro Augias, nella garbata discussione svoltasi tra lei e il professor Alfredo Luzi sull’uso corrente della nostra lingua mi avete voluto tirare in ballo. Posso solo aggiungere alcune sintetiche note. Tra residenti ed emigrati oggi parliamo l’italiano in più di sessanta milioni. Per gran parte di noi è una lingua seconda, la prima lingua nativa e familiare era uno dei dialetti. Gli italofoni nativi sono un fenomeno recente, fuori di Firenze, di Roma e dell’esilissimo strato della borghesia colta. Negli ultimi decenni la vita sociale ci ha spinto ad acquistare l’uso parlato della lingua, ma non a leggere. La scuola di base ha svolto e continua a svolgere un grande lavoro, ma non così la scuola media superiore. Questa e poi l’università hanno ignorato e ignorano la pratica estesa della lettura e della scrittura come parti integranti e abituali dello studio. In queste condizioni è inevitabile che l’italiano parlato sia per molti un italiano orecchiato, ma non ben posseduto. Tale resterà finché scuola media superiore e università non cambieranno registro e finché i libri non entreranno nella nostra vita quotidiana. La debolezza culturale favorisce l’affiorare di stravaganze e imbecillità linguistiche, latinismi rarissimi e quindi difficili come soprassessorio “ che rinvia, differisce”, o anglismi come location per dire luogo d’un incontro. Studiare bene latino e inglese ci aiuterà, tra l’altro, a ridere in faccia a chi commette questi abusi e a parlare un po’ meglio l’italiano. Tullio De Mauro Più che “sintetica” la nota del professor De Mauro è “densa”, nel senso che racchiude nella sua brevità numerosi temi ognuno dei quali sarebbe meritevole di commento. La scuola di base, afferma per esempio, continua a svolgere un lavoro meritevole al contrario della media superiore e dell’università indebolite da riforme dissennate. Allo sconquasso hanno contribuito, a parità di demerito, sia la destra sia la sinistra. A partire dal 1968 – o dalle sue conseguenze – ci si è rincorsi in una gara suicida che volendo dare all’istruzione maggiore “democrazia” ha in realtà reso gli studi non più facili ma più faciloni. Non si è calcolato che gli allievi socialmente avvantaggiati avrebbero comunque potuto rimediare con altri mezzi o addirittura all’estero e che i più colpiti dalla cattiva preparazione sarebbero stati proprio i giovani meno abbienti che nelle intenzioni si voleva proteggere. La vita sociale, scrive De Mauro, ha insegnato a molti a parlare ma non a leggere. Affiora qui uno dei peggiori drammi culturali aggravatosi con la crisi economica. Il danno di una insufficiente pratica della lettura è enorme non solo dal punto di vista culturale. Il cattivo uso della lingua, il cedimento agli anglicismi spesso sbagliati o inutili, viene soprattutto da qui. Corrado Augias