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 2014  luglio 23 Mercoledì calendario

ANNO 2030, LA MALEDIZIONE DELL’AIDS È FINITA

Ce li ricordiamo tutti gli amici che nei primi anni Ottanta si ammalavano, il loro sguardo vuoto e disperato, la discesa inarrestabile e violenta lungo il precipizio di un male sconosciuto e perciò spaventoso: colpiva solo loro, i ragazzi più belli, con le professioni più prestigiose, sempre in viaggio verso New York, che le ragazze sognavano inutilmente come fidanzati. Morivano uno a uno, di un virus che pareva colpire soltanto loro e che subito divenne il cancro dei gay, la peste omosessuale, la punizione divina per il peccato abominevole. Una scelta sessuale che raramente si era dichiarata come gesto libertario e politico, che era stata tranquillamente promiscua, protetta dall’ipocrisia familiare e sociale, divenne un’ignominia, un pericolo pubblico. Come ai tempi di altre epidemie la scienza non sapeva cosa fare: pareva che colpisse soltanto i gay, che si trasmettesse solo per via sessuale tra maschi, si sparsero leggende nere. I parenti si allontanavano, gli amici scomparivano, i compagni vivevano nella paura del contagio; gli ospedali rifiutavano gli amma-lati, i medici non osavano toccarli. Ma ci furono pionieri anche in Italia, come Umberto Tirelli che scelsero di dedicarsi a quella che poi venne chiamata Hiv/Aids.
Oggi possiamo cominciare a dirlo. A dire quello che fino a pochi anni fa sarebbe suonato come un eccesso di ottimismo, se non addirittura frutto di avventata sconsideratezza: l’epidemia da Aids è vicina a essere
sconfitta. A sostenerlo è Michel Sidibé, il maliano direttore esecutivo del programma delle Nazioni Unite sull’Aids (Unaids) che, dati alla mano, esamina i progressi della lotta alla malattia. È lui a lanciare pubblicamente la scommessa: tra quindici anni potremo dichiarare la fine di un incubo che dura dai primi
anni Ottanta.
Sidibé lo ha ripetuto anche in questi giorni, durante la ventesima conferenza mondiale su Hiv e Aids in corso (da domenica) a Melbourne, intitolata proprio “Stepping up the pace”. Ovvero: “accelerare il ritmo”. E lo ha anche messo nero su bianco nel “Gap Report”, pubblicato da Unaids pochi giorni fa: 422 pagine di numeri e tabelle, considerazioni e analisi. Dobbiamo proseguire su questa strada e accelerare il passo, appunto, fiduciosi che gli sforzi fatti in vent’anni da politica e ricerca stanno finalmente dando i loro frutti.
Ma la conferenza di Melbourne vive uno strano contrasto tra l’ottimismo dei numeri e le tragedie di un’altra realtà,
con l’inconsueto strazio di essere inaugurata dalle lacrime di un premio Nobel. Quelle dell’immunologa francese Françoise Barré-Sinoussi, che le ha trattenute a stento nel ricordare le vittime del volo MH17 esploso sui cieli ucraini. Su quell’aereo, ha ricordato Barré-Sinoussi, c’erano anche alcuni dei maggiori esperti di Aids al mondo, come lo scienziato olandese Joep Lange, «persona meravigliosa, ottimo professionista, ma soprattutto splendido essere umano», che come migliaia di altri scienziati stava andando a Melbourne a discutere dei progressi della lotta all’epidemia. La conferenza è stata dedicata a loro. E continua, nonostante tutto, nel segno dell’ottimismo riassunto nella scommessa di Sedibé.
Per esempio, il numero dei morti attribuibili all’Aids ogni anno nel mondo. Guardando i dati del 2013 rispetto a quelli dell’anno precedente si nota un calo dell’11,8 per cento. Un record, in linea con una tendenza positiva che si osserva da anni: infatti, mentre nel 2005 avevamo registrato 2,4 milioni morti su scala globale, oggi possiamo cautamente festeggiare un dato di «appena» un milione e mezzo di decessi. Anche le nuove infezioni si sono ridotte: nel corso del 2001 le persone contagiate dal virus dell’Hiv erano state 3,4 milioni, l’anno scorso «soltanto» 2,1.
Ma è l’accesso alle terapie anti- retrovirali il dato di cui oggi le Nazioni Unite segnalano l’importanza: ogni anno il numero delle persone che accedono alla possibilità di curarsi cresce. La proiezione per il luglio 2014 parla di quasi 14 milioni di persone raggiunte dai farmaci, quindi a un passo dall’obiettivo di 15 milioni per il 2015 che le Nazioni Unite si sono date con il Millennium Development Goal stabilito nel settembre del 2000. Se si continua su questa strada, sottolinea l’Unaids, entro il 2030 avremo vinto l’epidemia. Cioè, in numeri, avremo ottenuto il 90 per cento del calo delle infezioni e la stessa percentuale del calo delle vittime.
La roadmap che oggi l’Unaids lancia da Melbourne è il risultato di un impegno che ha coinvolto politica, scienza e attivismo globale e che ha fatto più progressi negli ultimi cinque anni che nei precedenti 25 «Oggi possiamo pronunciare questa frase con fiducia: la fine dell’epidemia da Aids è possibile», scrive Sidibé. Ma «è possibile» non significa che sia dietro l’angolo. Ogni giorno 5.700 persone contraggono ancora il virus e 35 milioni di persone attualmente convivono con l’Hiv. Non solo: 19 milioni di infetti non sanno di esserlo. Ma soprattutto le sperequazioni sono ancora tante ed è questo il «gap» del titolo del rapporto Unaids.
La principale è geografica e sociale. La maggior parte delle persone che vivono con l’Hiv abita nell’Africa subsahariana.
È soprattutto donna, giovane o persino adolescente, e non ha accesso alle cure. Con differenze significative. In Nigeria, per esempio, l’Hiv interessa il 3,7 per cento della popolazione: poche, forse, in termini relativi. Ma la Nigeria è una nazione molto popolosa, perciò quella percentuale significa che là le persone con Hiv sono tre milioni e mezzo. Quindi tante, in termini assoluti. Per di più, in Nigeria le terapie sono accessibili solo dalla metà degli anni duemila, e l’80 per cento degli infetti ne è ancora tagliato fuori.
Mentre in Sudafrica, dove un adulto su cinque è portatore del virus, le cose stanno cambiando in meglio. Per anni il presidente Thabo Mbeki (in carica
dal 1999 al 2008) ha negato l’esistenza del problema sobillato dai negazionisti, quelli per cui l’Aids non è una malattia virale ma un’invenzione delle aziende farmaceutiche. In questo modo ha impedito l’accesso alle cure a milioni di persone, tanto che un gruppo di scienziati di Harvard ha calcolato le morti che Mbeki può sentirsi sulle spalle nel numero spaventoso di 330.000. Poi è arrivato Kgalema Motlanthe e soprattutto l’attuale presidente Jacob Zuma, e oggi il Sudafrica è uno dei Paesi al mondo che ha visto crescere più in fretta il numero delle persone in terapia.
Il caso sudafricano dimostra anche l’importanza della politica. «È così, perché per fermare l’epidemia gli strumenti ci sono già», spiega Giovanni Maga, virologo del Cnr di Pavia e autore di Aids, la verità negata.
«Anche se non si può ancora parlare di «eradicazione» del virus, perché non esiste un vaccino, né tantomeno di cura definitiva, la scienza ha comunque raggiunto traguardi importanti. Quindi ormai sono le scelte della politica a diventare determinanti».
Per esempio, abbiamo già i test per la diagnosi rapida di infezione sulla saliva, che in certe zone degli Stati Uniti si possono comprare in farmacia come i test di gravidanza. Ma servirebbe diffonderli in tutto il mondo. Idem per le terapie. Servirebbe, in generale, sapersi adeguare a un’epidemia che cambia e cambierà nel tempo. «E per fare tutto questo servirebbero, soprattutto, gli investimenti», aggiunge Maga. Anche nella ricerca. «La ricerca scientifica sull’Aids ha, in tutto il mondo, tre direzioni – prosegue Maga – Dobbiamo sviluppare farmaci efficaci almeno quanto gli attuali, ma con meno effetti collaterali e più facilità di somministrazione. Dobbiamo trovare un vaccino, e mentre su quello preventivo siamo ancora al lavoro, quello terapeutico potrebbe essere vicino». Ovvero, potremmo avere presto un vaccino che aumenta la capacità del sistema immunitario di combattere il virus. «Infine stiamo cercando di eliminare i serbatoi dove il virus si annida nel nostro organismo». E tutto questo lo stanno raccontando proprio in queste ore gli scienziati a congresso a Melbourne: i farmaci antiretrovirali hanno già salvato milioni di vite e la ricerca di nuovi farmaci prosegue in tutto il mondo, inanellando nuovi successi.
Qualsiasi traguardo della ricerca faciliterà il raggiungimento degli obiettivi dell’Unaids, spiegano gli scienziati. Ma qualsiasi traguardo contro l’Aids, specifica il programma delle Nazioni Unite, ha bisogno di soldi. Da qui all’anno prossimo servono almeno 24 miliardi di dollari. Altrimenti la scommessa di Sidibé è destinata a essere persa, e con lei la nostra trentennale battaglia contro l’Aids.