Mara Accettura, D - la Repubblica 19/7/2014, 19 luglio 2014
MILLION DOLLAR ARTIST
Case d’asta che battono Hirst e Koons per cifre iperboliche. Artisti venerati come popstar. Fiere che spuntano come funghi e giovani collezionisti che arrivano da Cina, Brasile, Russia, Hong Kong, India... «È un mondo irriconoscibile. Ho iniziato negli anni 80 quando, a parte grandi nomi tipo Schnabel, erano gli impressionisti a spopolare su un mercato di europei e americani», dice Georgina Adam, editor at large di The Art Newspaper e autrice di Big Bucks: The Explosion of the Art Market in the 21st Century. «Pochi giorni fa ero da Sotheby’s a Londra dove si vendeva un Monet e uno degli offerenti era cinese. Il fatto di esserci per aggiudicarsi un trofeo è un segno dei tempi. Come le cifre.
Lo scorso novembre Balloon Dog di Jeff Koons è stato battuto da Christie’s a New York per 58.405.000 dollari: un record per un artista vivente. Koons è un brand e Balloon Dog aveva persino un “guarantee” (anticipo sulla cifra di aggiudicazione, ndr) presumibilmente del Qatar: in pratica la sua vendita era stata assicurata prima dell’asta».
Oggi l’arte contemporanea domina il mercato ed è in continua ascesa, superando impressionisti, arte moderna, asiatica e classica. Nel 2013 le case d’asta hanno generato guadagni per 5,7 miliardi di dollari, con un incremento del 564% sul 2004. A spopolare è il duopolio di Christie’s e Sotheby’s che insieme sono responsabili di più della metà delle vendite di arte contemporanea all’asta.
I motivi di questo boom sono molteplici. Certamente non ci sono più tanti capolavori di arte antica e moderna in giro. Ma c’è molto di più. Venti anni fa i clienti che potevano comprare opere superiori ai 5 milioni di dollari erano un centinaio. Oggi sono più di 1.000. «Sono aumentati i collezionisti perché il mondo si è fatto più grande», dice Massimiliano Gioni, direttore artistico della Fondazione Nicola Trussardi e associate director del New Museum di New York. «Tra gli acquirenti dei prezzi record delle ultime aste molti erano cinesi, fra i più grandi compratori al mondo. Ma non si può ridurre il boom solo all’esplosione di quel collezionismo, il mercato è globalizzato. C’è anche il Qatar, tra i principali protagonisti della scena internazionale. E l’arte - o meglio un numero assai limitato di artisti - funziona da investimento e bene rifugio. Mi trovo a San Pietroburgo tra le stanze dell’Hermitage e mi accorgo che in fondo quello che accade ora non è molto diverso da quello che accadeva 150-200 anni fa: chi ha tantissimo denaro compra arte».
Sono esplose le megagallerie come Gagosian, David Zwirner, Hauser&Wirth, White Cube. Con spazi molteplici in diversi paesi e staff di centinaia di persone, hanno contribuito a creare la fama e il brand di artisti come Koons e Hirst. Oggi il loro potere è messo in discussione dalle case d’asta che sfruttando un’agenda fenomenale di contatti portano avanti un marketing aggressivo soprattutto nei mercati emergenti. E lavorano direttamente sul mercato primario. «Sotheby’s è diventata un “multi-channel art businnes”, una società globale che si occupa di arte a 360°», dice Claudia Dwek, vicepresidente di Sotheby’s Europa e senior specialist di arte contemporanea. «Ha 90 sedi nel mondo e opera per esempio a Hong Kong da oltre 40 anni. Il nostro servizio di vendite a trattativa privata è cresciuto moltissimo nell’ultimo decennio. Nel 2013 ha registrato un totale di 1.2 miliardi di dollari con un incremento
del 30% rispetto all’anno prima. In più col servizio BIDNow si può partecipare on line in tempo reale alle aste di tutto il mondo». Gli artisti non si sono fatti sfuggire l’occasione: nel 2008 lo stesso Hirst ha bypassato i suoi dealer, Gagosian e White Cube, consegnando 218 opere a Sotheby’s, che le ha vendute per la cifra spettacolare di 111 milioni di sterline.
Il mercato dell’arte ha persino assimilato il linguaggio e le dinamiche di quello dei beni di lusso: basti pensare che dietro Christie’s c’è Francois Pinault, il tycoon dei beni di lusso che ha sviluppato propro il settore dell’arte contemporanea. Il risultato è che «i dealer e le case d’asta copiano la produzione e le tecniche di marketing dei beni di lusso, mentre le case di beni di lusso, come Cartier e Vuitton, cercano di elevare i loro prodotti al livello di arte», dice Adam.
Le collaborazioni fioccano, vedi Takashi Murakami e LVMH o Anselm Reyle e Dior. E non riguardano solo la moda. Gli artisti cercano la massima visibilità per cui si mischiano più che volentieri a celebrities di altri mondi come è successo a Koons e Lady Gaga, Sam Taylor-Wood e David Beckam, Marina Abramovic e Jay-Z. Tutta colpa di Warhol. «È stato lui ad aprire la pista, con la sua ossessione per i media e la celebrità, la mercificazione dell’arte e l’industrializzazione della produzione, con la mano dell’artista “rimossa” dal processo», dice Adam. Così un pugno di artisti ha acquisito ricchezze stratosferiche. Tra tutti Damien Hirst che, secondo il Sunday Times vale 215 milioni di sterline e che si sta costruendo un “egoseum”, un personale museo. Aa seguire Koons, Takashi Murakami Brice Marden, Julian Schnabel, Jasper Johns, Anish Kapoor, Zhanh Huan, Zeng Fanzhi e Cai Guo-Qiang.
Se questo non bastasse ci sono le fiere. Una volta erano pochissime, tra cui primeggiavano Art Basel, Miami, Hong Kong, Frieze e Fiac. Oggi ce ne sono più di 200. Come mai? «I collezionisti “new money”, sono overloaded e rampanti, gradiscono eventi in cui trovano tutto concentrato e subito», spiega Stefano Baia Curioni, storico dell’Economia in Bocconi e autore di Fairland.
Explorations, Insights and Outlooks on the Future of Art Fairs. «Le gallerie dominanti presidiano il territorio per controllare il sistema del collezionismo globale: ecco perché Art Basel apre a Miami e poi a Hong Kong, Frieze dopo Londra va a New York».
«Una volta gli artisti e i curatori detestavano le fiere», aggiunge MassimoTorrigiani, direttore del comitato scientifico del Pac di Milano ed ex direttore della Fiera di Arte Contemporanea di Shanghai. «Dava fastidio il criterio commerciale e un’estetica da supermercato. Oggi sono tutti lì. La rete ci ha abituato a una visione patchwork, per cui saltiamo con agio da uno stand
all’altro, in più vogliamo fare un’esperienza umana, emotiva, che non sarebbe possibile comprando su Internet. Il problema è che oggi più della metà del business di una galleria media si svolge in fiera. Questo crea grande competizione tra gallerie internazionali - che una volta si scambiavano gli artisti - e una grande pressione sulla maniera e i tempi di produzione. Per non
parlare della perdita di legame col territorio».
Resta da chiedersi se questo boom sarà sostenibile nel tempo. «È una domanda difficile. Tutti i mercati sono ciclici e non sappiamo quanto durerà questo», dice Adam. «Starà al gusto delle generazioni successive
decidere che cosa ha veramente valore. Cosa succederà se il Qatar smetterà di collezionare? Il pericolo più grande è che l’opera d’arte non rappresenti più la visione di un artista, ma risponda alla domanda del mercato. E che quindi si creino un surplus di produzione, duplicazione e conformità delle opere».