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 2014  luglio 19 Sabato calendario

NEL CONTINENTE DEGLI AMORI PROIBITI

L’unico modo per amarsi è vivere prigionieri, nascosti dietro una recinzione di cemento alta più di due metri. «Abbiamo scelto questa casa per via dei muri. Proteggono la nostra privacy. Ma i vicini vedono entrare quasi solo noi, mai nessuna ragazza, e questo è un problema. Prima o poi qualcuno potrebbe insospettirsi e chiamare la polizia».
K. ha 27 anni, è un attivista gay ugandese. Vive in clandestinità dal 24 febbraio 2014, da quando cioè il governo di Yoweri Museveni, presidente dal 1986, ha approvato la legge che prevede pene fino all’ergastolo per il “reato di omosessualità” recidiva e fino a sette anni di detenzione per chi viene accusato di favoreggiamento. K. si nasconde, come i suoi tre compagni di casa e i gay, le lesbiche e i trans di tutto il Paese africano.
Statistiche ufficiali non ce ne sono. Stime ufficiose delle organizzazioni umanitarie parlano di un milione di persone Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender). C’è chi dice che l’Anti-Omosexuality Bill sia servito a Museveni per zittire l’opposizione e riconquistare consensi in vista delle presidenziali 2016, dopo gli scandali di corruzione che hanno colpito il suo governo. Ma per gli attivisti cambia poco: la politica, da queste parti, è considerata poco più che propaganda.
«Abbiamo dovuto costruirci una falsa identità per ogni cosa, per andare al lavoro, per uscire, per affittare un appartamento», racconta D. 23 anni, studente. Nessuno vuole usare il proprio nome. Le delazioni sono all’ordine del giorno.
Dopo il varo della legge, si è scatenata una vera e propria caccia all’uomo: i principali tabloid del paese, Red Pepper, Hello, The Sun, hanno sbattuto in prima pagina le foto di centinaia di presunti omosessuali. Il risultato è stata una raffica di aggressioni di cui, nella maggior parte dei casi, non c’è traccia negli archivi di polizia. «Se denunci, rischi di finire in galera», spiega Sandra Ntebi, 31 anni, presidente del Lgbt national security commitee, associazione impegnata nella difesa dei diritti umani insieme ad altre della rete Smug, Sexual minorities Uganda, «da febbraio a oggi abbiamo registrato 250 casi di persone cacciate di casa, a cui è stato fatto mobbing sul lavoro, che sono state picchiate, arrestate e ora anche ricattate». Estorsioni in cambio del silenzio, la nuova frontiera dell’omofobia.
«Prima eravamo una comunità underground ma vibrante», dice K., 34 anni. «Avevamo i nostri luoghi di ritrovo, ci confrontavamo e uscivamo insieme. Ora nessuno vuole più vedere gli altri».

I baci, le carezze, gli abbracci sono possibili solo tra le mura di casa. Ogni tanto qualcuno prova a uscire dall’isolamento per andare nei pochi bar frequentati da familiari e amici che non hanno tradito. E con una precauzione: muoversi in quattro, due uomini e due donne, così da simulare la “normalità” di coppie etero.
Leticia (soprannome) vorrebbe correggerlo, questo destino. «Tu mi vedi uomo, ma io mi sento donna. Come pensi possa vivere in questa situazione? Con la paura di fare un gesto sbagliato ed essere additato e picchiato o denunciato?». Anche stendere il bucato, per un ragazzo gay di Kampala, è un rischio: nella mentalità degli omofobi, quella è roba da donne.
Dennis W., 29 anni, di Smug, rivela un altro aspetto inquietante della clandestinità cui sono costretti gli omosessuali: «Molti di quelli che hanno l’Hiv non vanno in ospedale per paura di essere denunciati. Ci sono dei medici amici che ci aiutano, ma non basta».
Negli ultimi mesi, l’alcolismo è aumentato all’interno della comunità, conferma più di un attivista. «È l’unica strada che molti hanno trovato per fuggire alla realtà».
Chi ha un po’ soldi in tasca, nel fine settimana cerca riparo sulle coste del lago Vittoria, la sorgente che alimenta il Nilo Bianco. Lo chiamano The Bay, è una sorta di club gestito da una europea e frequentato in maggioranza da occidentali. Qui gli invisibili di Kampala possono godersi un po’ di libertà, ma in città nessun luogo è sicuro. Anche all’università Makerere, dove Sandra lavora come ricercatrice nel corso dedicato agli studi di genere, non c’è pace. Controlli, poliziotti in borghese a fare la spia. «Vivevo con la mia compagna e la figlia di tre mesi», racconta, «ma abbiamo abbiamo deciso di separarci. Era troppo pericoloso. Ora sto pensando di mandare via entrambe, in Europa».
Già, l’Europa. A Bruxelles la condanna della legge ugandese è stata unanime. Danimarca, Norvegia, Olanda, Svezia hanno minacciato di cancellare una parte dei loro aiuti al Paese africano. La Banca mondiale ha sospeso un prestito di 90 milioni di dollari. Gli Stati Uniti - che con il segretario di stato John Kerry avevano già criticato la normativa omofoba paragonandola a quella in vigore nella Germania nazista - il 19 giugno hanno annunciato nuove sanzioni: la legge è «contraria ai diritti umani universali».
Ma la comunità internazionale continua ad avere un atteggiamento ambiguo nei confronti del potente Museveni. «Non è chiaro cosa stiano facendo per noi», continua l’attivista di Smug. «Alcune ambasciate hanno negato i visti a persone Lgbt e le condizioni per ottenere l’asilo politico sono molto complicate, al limite dell’impossibilità».
L’11 giugno, poi, per volere dell’Unione Africana cui spettava l’indicazione del candidato alla presidenza, a capo dell’assemblea generale dell’Onu è stato eletto Sam Kutesa, ministro degli esteri ugandese, tra i più convinti sostenitori dell’Anti-Omosexuality Bill. Una nomina che la dice lunga sul potere di influenza di Museveni, non solo sui governi africani.
L’Uganda, come il Kenya, è un prezioso alleato dell’Occidente nella guerra contro gli islamisti che imperversano nell’est e nel centro Africa. Un contingente ugandese di 6mila uomini combatte in Somalia contro le milizie di Al-Shabaab, a fianco degli alleati internazionali.
Per gli Stati Uniti, l’alleanza con Museveni è funzionale anche al contenimento delle aspirazioni cinesi nell’area: Pechino ha investito milioni di dollari nel Paese e punta al controllo delle sue risorse petrolifere. Interessi e relazioni geopolitiche che rendono complicato sbarazzarsi dell’autocrate di Kampala e rischiano di ripercuotersi anche sulla comunità Lgbt.
Poi c’è la religione. D. la dice così: «Ogni legge qui viene decisa e portata avanti quasi solo da leader religiosi».
Le chiese pentecostali ed evangeliche - ce ne sono decine solo nella capitale - sono state le principali sostenitrici della legge liberticida. Al Miracle center, il secondo centro pentecostale più grande della città, protetto con metal detector e check point all’ingresso, ogni settimana, nel sermone della domenica, i pastori dedicano spazio alla propaganda contro i gay, il virus iniettato dagli occidentali nel corpo sano ed eterosessuale della nazione. E neppure la chiesa cattolica si è sottratta all’abbraccio con gli omofobi, anche se con qualche eccezione. Sandra ricorda solo, come eccezione, la storia di Anthony Musaala, prete molto popolare a Kampala, che venne poi scomunicato nel 2013 per aver denunciato presunti abusi su minori commessi da alcuni sacerdoti e per aver offerto aiuto agli omosessuali.
A dare sostegno alle persone Lgbt restano le organizzazioni umanitarie. «Ma dobbiamo stare attenti a non farci espellere perché saremmo costretti a interrompere anche gli altri programmi di aiuto che abbiamo in Uganda, a cominciare da quelli sull’Hiv», avverte un’attivista di Amnesty International.
L’alternativa, per chi può permetterselo, è fuggire. «Ma io non voglio lasciare il mio Paese», sospira K. «Questo è il posto più bello che esista. In quale altro Paese posso allungare un braccio verso un albero e cogliere un mango così buono?».


Mezzo mondo senza libertà
Nonostante gli sforzi della comunità internazionale, l’omosessualità è illegale ancora in molti Paesi
del mondo. 78 dei 193 stati membri dell’Onu hanno legislazioni anti-gay. In Iran, Mauritania, Arabia Saudita, Sudan, Yemen gli omosessuali rischiano
la pena capitale, in Bangladesh l’ergastolo. In tutta l’Africa, dall’Egitto al Camerun, dallo Zimbabwe all’Algeria, esistono leggi omofobe. In Nigeria è
da poco in vigore una norma che prevede 14 anni
di carcere per il matrimonio omosessuale e 10 anni di carcere per chi fa parte di una organizzazione Lgbt. Ma è la legislazione ugandese la più dura del continente: fino all’ergastolo per chi viene accusato di omosessualità “recidiva” (còlto più di una volta in flagranza di reato), arresto anche in caso di solo sospetto, possibilità di accusare di favoreggiamento (pena fino a 7 anni) anche avvocati e testimoni dell’imputato, con evidenti ostacoli per la difesa.