Federica Montevecchi, l’Unità 20/7/2014, 20 luglio 2014
PROF INQUISITORI O IGNORANTI, VI SPIEGO COS’È LA MATURITA’
Dopo il colloquio dell’ultimo candidato all’esame di Stato della quinta liceo scientifico, dove insegno filosofia e storia, ci ho riflettuto qualche giorno e poi ho deciso: non posso far finta di niente. Scelgo di scrivere per raccontare il comportamento di alcuni commissari di esame e soprattutto del presidente della commissione: una galleria del degrado professionale e civile, rappresentativo dello stato in cui versa la scuola italiana. È una storia forse emblematica che dovrebbe far riflettere ci ha a cuore il futuro dell’istruzione.
Il presidente è un sessantenne, si veste come un ragazzo (jeans, polo, scarpe da tennis, occhiali da sole portati sulla fronte), ha i capelli piuttosto lunghi di un colore artificiale e indefinito fra il beige e l’arancione, è docente di matematica e fisica. A un collega ricorda il cantante anziano dei Simple Minds. Io gli trovo subito un posto nella mia personale classificazione dei docenti italiani: senza dubbio appartiene al gruppo più numeroso, cioè i chiacchieroni. Sembra conoscere poco delle discipline che insegna, nulla del mondo in cui vive: il suo eloquio impreciso e involuto rivela un pensiero alimentato spesso da luoghi comuni. Ciò non gli impedisce di parlare senza sosta e soltanto di se stesso: dice di essere particolarmente intelligente, dunque veloce nell’agire e nel pensare, oltretutto comprensivo verso i meno dotati - ad esempio noi commissari - e interessato soltanto agli studenti. Non si tratta di autoironia, purtroppo, come dimostra il fatto che da subito si dedica ai ragazzi in attesa di sostenere l’esame, promettendo loro trattamenti di favore, che oltretutto non ha il potere di garantire.
Al suo opposto c’è il professore di scienze, un uomo dall’atteggiamento inquisitorio: insegnare per lui significa fare in modo che il discente dia il peggio di sé così da mostrargli la sua inadegua- tezza a raggiungere risultati eccellenti. Appartiene al gruppo dei ripetitori di manuali e ritiene che la scienza sia un insieme di numeri e formule per esercitare la memoria passiva: la riflessione e l’autocritica, segni dello sviluppo evolutivo, gli sono estranei. Il dibattito scientifico di conseguenza non gli interessa, anzi ritiene quasi un insulto alla scienza che tre studenti, fra i migliori, presentino come argomento del colloquio rispettivamente scritti sulla necessità di una coesistenza dell’agricoltura biologica con quella Ogm, sul confronto bioetico riguardante l’inizio della vita, sulla clonazione. I luoghi comuni, tutti immaginabili, si sprecano, ma il culmine si raggiunge quando a una studentessa che presenta un’intervista a Cesare Galli, il donatore del bovino Galileo, il professore, che dimostra di non avere idea di chi si stia parlando, contesta di non avere tenuto conto di ciò che dice il manuale di scienze relativamente alla clonazione della pecora Dolly. La ragaz-Ai miei alunni dico: «Non aspettatevi necessariamente riconoscimenti» za è acuta, oltreché preparata, e gli ribatte che Cesare Galli le ha mostrato quanto il manuale sia generico rispetto al tema della clonazione, poi gliene da spiegazione. Nessuno apprezza la forza e il coraggio intellettuale della studentessa che, insieme ai suoi compagni, viene naturalmente penalizzata.
L’insegnante di scienze trova una sponda nella commissaria di lingua e letteratura spagnola, una bella ragazza del sud innervosita dal fatto che alcuni studenti, soprattutto ragazze, abbiano un’autonomia cui non sono disposti a rinunciare, neppure di fronte alla sue minacce. A infastidirla c’è in particolare una studentessa che propone uno scritto sulla rivoluzione passiva in Italia: parla di Cuoco e di Gramsci, è consapevole della storia del suo paese come pochi adulti lo sono, è brillante, vuole fare il concorso per la classe di lettere e filosofia alla scuola normale di Pisa. Ebbene, non avrà il massimo dei voti, nonostante fosse prevedibile sulla base del suo curriculum di studio. La giovane collega di spagnolo è l’esempio della frustrazione tanto diffuse nella scuola italiana da essere comuni ai tre macrogruppi nei quali ho ordinato i miei colleghi (i chiacchieroni insipienti, gli inquisituri ignoranti, i frustrati insofferenti) e persino a quello cui appartengono i pochi che nella scuola insegnano continuando a studiare. Altrettanto trasversale è l’attenzione a non prendere posizione mai, a conformarsi anche alle situazioni più inaccettabili: è la difesa del quieto vivere, carattere tipicamente italico, di cui è esempio la presidentessa di un’altra commissione d’esame insediata nel mio stesso istituto, una signora di mezza età che ha come unica finalità il non avere problemi, al punto da infischiarsene delle valutazioni scorrette dei commissari. Va da sé che i docenti capaci di formare i giovani faticano molto in questa situazione, sembrano quasi un’elite non riconosciu ta che attribuisce una finalità alta, e al tempo stesso antica, al proprio mestiere: insegnare è esercizio della paideia, di una Bildung volta a favorire nei giovani consapevolezza di se stessi e del mondo.
Per quest’anno gli esami sono finiti, gli studenti li ricorderanno come un’esperienza di confusione e di emotività non governata, ma per fortuna hanno di fronte l’orizzonte aperto del futuro che potrà ripagarli dell’immediato passato. Chi continua a ritenere l’insegnamento uno dei tratti qualificanti di un paese che voglia dirsi civile è ancora più convinto che la scuola vada riformata a partire dagli insegnanti: essi vanno valutati periodicamente e rigorosamente, anche perché è paradossale che chi valuta per mestiere non possa essere, a sua volta, valutato. Se ciò non accadrà sarà inutile e vana ogni proposta volta a innovare saperi e strumenti didattici: non a caso gli esami di cui ho raccontato si sono svolti in una scuola che ha la lavagna interattiva multimediale in ogni aula, nonché classi 2.0.
Per quanto mi riguarda a settembre entrerò nelle quinte spiegando agli studenti che alla fine dell’anno non dovranno aspettarsi necessariamente un riconoscimento del loro impegno e del loro lavoro poiché gli esami, questi esami, sono privi di razionalità, quindi del tutto imprevedibili. Un’esperienza inutilmente costosa per lo Stato, faticosa e deludente per chi abbia la sventura di doverla subire.