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 2014  luglio 22 Martedì calendario

DI MAIO, IL PUPILLO DI GRILLO E CASALEGGIO ORA PENSA IN GRANDE

I commessi di Montecitorio all’inizio sbagliavano sempre. Perché Luigi Di Maio anche nel look è la negazione del prototipo del grillismo. Tanto i suoi compagni di partito – pardon, Movimento – si presentano alla Camera con look improbabili, tra il gruppettaro caciarone e il trendy paesano, tanto lui è sempre inappuntabile in completi grigio antracite, camicia bianca e cravatta d’ordinanza. Grisaglie un po’ tristi, per la verità, che rimandano più al burocrate di provincia che all’avvocato Agnelli. Ma tant’è.
La zazzera tagliata di fresco, poi, completa l’affresco da primo della classe, di quelli che di solito piacciono alle mamme (e meno alle figlie). Nessuno può azzardarsi a sostenere che è anche per una questione di look che Di Maio sia diventato vice presidente della Camera. Ma l’abito, se non fa il monaco, a volte conta parecchio.
Lui, da par suo, ha iniziato in sordina ed è venuto fuori – alla grande – alla distanza. Il proscenio grillino, nei primi mesi di legislatura, era infatti monopolizzato da altri: Vito Crimi e le sue gaffe, Roberta Lombardi e i suoi psicodrammi, ma soprattutto Alessandro Di Battista, il Brad Pitt del grillismo da Transatlantico. Belloccio e sbruffone, ha tenuto botta per settimane. Di Maio, nel frattempo, lavorava nell’ombra, imparando a danzare tra codici e regolamenti, facendosi molto apprezzare, riunione dopo riunione, dai suoi colleghi della presidenza. Con Roberto Giachetti (Pd), il sovrano incontrastato e “stazzonato” dei regolamenti d’aula, il legame è solidissimo. “È molto preparato, un po’ saccente, ma ad avercene alla Camera di gente come lui”, sussurrava un pezzo grosso di Forza Italia dopo qualche mese di legislatura.
Tanto che, poco alla volta, i deputati grillini hanno preso lui come punto di riferimento. “Cosa bisogna votare su quell’emendamento?”. “Chiedete a Di Maio”. “Che si fa sul quell’ordine del giorno?”. “Sa tutto di Maio”. Una sorta di capogruppo in pectore: mentre gli altri passavano, lui restava. Così è Di Maio il primo che Grillo e Casaleggio vogliono incontrare durante le loro incursioni romane. E visto che i due non sono stupidi, quando si è deciso di rompere l’embargo verso i talk show, hanno puntato su di lui come volto da spedire in tv.
Anche perché, se il suo eloquio è felpato e il guardaroba rassicurante, questo 28enne di Pomigliano d’Arco, il paesone napoletano da sempre in mano alla sinistra, è durissimo nei contenuti. Acuto, brillante, sa dove vuole andare a parare e ci arriva senza troppe perifrasi. Insomma, mediaticamente funziona. Molto di più di Di Battista, che sembra sempre reduce da un happy hour. Così arriva l’investitura ufficiale: Grillo sceglie Di Maio per trattare con Matteo Renzi sulle riforme: sono già due gli streaming in cui l’ex rottamatore e l’enfant prodige dei pentastellati hanno incrociato le lame. Scamiciato e ingrassato, Renzi. Inamidato e puntuto, Di Maio. Insomma , il vicepresidente della Camera sembra incarnare l’evoluzione della specie del grillismo: se prima il movimento era tutto blog, piazze e vaffa day, con Di Maio i cinque stelle si sono dati un volto presentabile, pulito, quasi istituzionale. Tanto che qualcuno l’ha soprannominato “l’Alfano di Grillo”. Un Alfano, però, con molto quid. Più democristiano di Angelino, dicono, in quanto a capacità di lavoro e furbizia.
E qui iniziano i problemi. Perché il ragazzo, forse, si è un po’ montato la testa. “Grillo e Casaleggio avranno sempre meno spazio, conteranno di meno”, si è lasciato sfuggire l’altro giorno. E subito qualcuno ha trovato la conferma ai suoi sospetti: eccolo lì, Di Maio si candida a leader del movimento. Di più: punta a fare il candidato premier dei Cinque Stelle alle prossime elezioni. Il problema, però, come si direbbe, è anche politico. Perché, a parte il suo piccolo cerchio magico, il gruppo alla Camera è in subbuglio e lui è finito sul banco degli imputati. Non solo per le sue ambizioni di leadership, ma per il fatto di incarnare l’ala trattativista con il Pd, mentre i duri e puri con Renzi non vogliono prendere nemmeno un caffè.
E così, dagli a Di Maio. “È un leader senza merito. Hanno deciso di lanciarlo a capo del movimento senza alcuna legittimazione. Se bisogna decidere un segretario, allora ci vuole un congresso”, attacca Tommaso Currò. La risposta di Di Maio arriva telegrafica, via Twitter. “Non sono il capo del M5S. Finita la legge elettorale scriverò una lettera agli attivisti che spiega tutto”.
Ma contro di lui piovono veleni. Come quello secondo cui sarebbe già con un piede dentro il partito di Renzi. “Fesserie”, dicono dal suo entourage. Anche perché Di Maio è corteggiato pure da Nuovo centrodestra e Forza Italia. Lo stesso Berlusconi, raccontano, pare abbia un debole per lui. Con grande “scuorno” della classe dirigenti azzurra, che si sente sempre rimbrottare: “Perché non ho una Boschi? Perché tra di voi non c’è un Di Maio?”.
Il deputato grillino, intanto, va dritto per la sua strada, incarnando l’ala partitica del Movimento cinque stelle, ovvero quella che vorrebbe abbandonare la fase movimentista per farsi partito vero, con struttura e organizzazione. Idea che ha fatto registrare una sollevazione in rete. “Se diventiamo un partito come gli altri, sarà la nostra fine”, è il tono dei commenti sui blog. Lui, per ora, fa spallucce. E si gode i complimenti di Grillo e Casaleggio, da cui, dicono, si mantiene equidistante. “Io imparo sempre da Di Maio, anche quando sta zitto”, gli ha scritto Beppe via sms. “Beppe, sei uscito pazzo o sei invecchiato!”, la risposta. “Ma veramente io dicevo sul serio...”.
Gianluca Roselli, il Fatto Quotidiano 22/7/2014