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 2014  luglio 22 Martedì calendario

ALBERTINI, FINTO BUONO DENTRO E FUORI DAL CAMPO

Il finto buono. Tutta colpa della faccia, lineamenti e pettinatura da bravo ragazzo lombardo. Il carattere però è forte, deciso. Demetrio Albertini è cresciuto all’oratorio di Villa Raverio, in Brianza, e adesso vuole prendersi la Figc, che sta a Roma. «Ho litigato con tutti i miei allenatori», ha detto una volta a Sportweek. Se ce la fa a battere Carlo Tavecchio, si prega di non twittare stupidaggini tipo «un presidente prete». Albertini ha in famiglia un vero sacerdote, suo fratello don Alessio, ma non è tipo che porga l’altra guancia. Non la porgeva in campo, non la porge da dirigente.

Luce a San Siro Gennaio 1989, Arrigo Sacchi lo fa esordire in Serie A nel Milan contro il Como. Non ha 18 anni. Di lui si parla benissimo, Gullit stravede per quel ragazzino col quid. Lo mandano per una stagione al Padova, a formarsi in Serie B. In Veneto trova ottimi compagni di viaggio: un «certo» Del Piero, un «tale» Di Livio. Lo riportano a casa. Sacchi lascia, gli subentra Fabio Capello e così Albertini diventa titolare del Milan degli Invincibili. Un giorno a San Siro Silvio Berlusconi lo incorona: «Albertini, Albertini… Ha riacceso la luce a San Siro, ho rivisto Gianni Rivera». Diventa il «Metronomo», centrocampista di lotta e di governo. La moderna evoluzione del numero dieci. Nel calcio sconvolto da Sacchi non ci sono più ruoli immutabili, quando occorre il 10 deve fare l’8 o il 4, e Albertini è così, un mix di cifre. Ha la visione di un Rivera e la capacità di tackle di un Benetti. Sacchi se lo porta in Nazionale, ovvio. Demetrio è uno dei due che non sbagliano il rigore contro il Brasile (l’altro è Evani): «Allo stadio c’erano mio padre e i mie due fratelli – ha raccontato nel libro “Il Mondiale è un’altra cosa”, Bompiani Editore -. Erano tranquilli perché ero il più giovane e non avevo mai calciato un rigore. Non c’era nessuna possibilità che fossi nella cinquina. Quando mi ha visto partire, papà si è disperato: “Ma che fa, se sbaglia si rovina la carriera. E’ impazzito!”. Un mio fratello non si dava pace. L’altro, il sacerdote, si divertiva: “Ma che volete che sia…”. Ho tirato da fermo, sulla destra e ho segnato. E’ stato il mio primo rigore senza rincorsa. Signori ha cominciato a calciarli così perché lo facevo io». Quattro anni più tardi, al Mondiale in Francia e contro la Francia, fallisce il suo penalty: «Ero stirato e non colpii da fermo, perché non mi sentivo in forze. Cambiai modo e sbagliai».
Seconda vita Albertini vince tutto, tranne il Mondiale. Poi, anno 2002, Carlo Ancelotti decide di puntare su Pirlo e ciao, fine della storia in rosso e nero. Da Albertini a Pirlo: col senno di adesso un gran bel passaggio di consegne, col senno di allora un addio doloroso. Demetrio va in Spagna, all’Atletico, ritorna (Lazio e Atalanta), subisce degli sgarbi («Mancini alla Lazio non ha ricambiato il rispetto che avevo per lui», racconterà), chiude al Barcellona, mica al San Vittore Olona. Al Milan, per il dopo, porte chiuse. Albertini non è uno «yes man». Studia da dirigente all’Associazione calciatori, col «sindacalista» Sergio Campana. In Calciopoli diventa vice del commissario straordinario Guido Rossi, ma dura poco: commette degli errori di strategia, entra in tensione col suo mentore Campana, e Gianni Petrucci, presidente del Coni, lo estromette. Pausa di riflessione. In Figc ritorna l’anno dopo come vice di Giancarlo Abete, e in questi anni federali è stato bravo a tenere le giuste distanze, non si è schiacciato su nessuno, è rimasto se stesso. Ora la candidatura alla presidenza. Il «finto buono» Albertini contro il «cattivo» Tavecchio. Il «cattivo» ha più voti, ma il «finto buono» ha un fratello, don Alessio, che da tempo ha preso i voti, per cui non si può mai sapere.