Emilio Ranzato, L’Osservatore Romano 21/7/2014, 21 luglio 2014
IL SACRO NEL QUOTIDIANO
Pochi film come Il Vangelo secondo Matteo danno un’impressione di complessiva compattezza e solidità pur serbando in sé un totale rifiuto per uno stile. Termine viceversa sentito come un imperativo in quegli anni di nouvelle vague, in cui nel rompere sistematicamente, programmaticamente le regole vigenti fino a quel momento, si stava già creando un nuovo codice, di lì a poco altrettanto condizionante e asfissiante, oltreché riconoscibile e facilmente decifrabile. Quello del Vangelo di Pasolini, che pure a quella sensibilità si avvicina, è invece cinema completamente libero, legato soltanto all’urgente ispirazione del momento.
All’inquadratura che rimanda alla citazione colta, segue magari il movimento di macchina improvvisato o la comparsa che guarda ingenuamente nell’obiettivo; alle sequenze girate con la tipica frontalità pasoliniana, se ne contrappongono altre risolte con piani dall’angolazione spericolata alla Welles; ai lunghi silenzi spezzati qua e là dai gospel o dalle musiche di Bach, si alternano monologhi dalla lunghezza inusitata. Eppure ci vuole un occhio davvero attento per notare certe incongruenze, che di certo sfuggono comunque alle prime visioni, tanto l’insieme fila liscio.
Lo stile, se di stile si può parlare, è infatti dettato semplicemente dal divenire degli eventi che vediamo sullo schermo. Con tutto ciò che ne consegue. Ossia con l’effetto di mostrare allo spettatore episodi evangelici che sembrano uscire dal testo sacro per trasformarsi in vita concreta. Persino vita minuta, in certi momenti. Ne è un esempio già la scena iniziale, quando Giuseppe si allontana da casa e da Maria incinta, per poi aggirarsi turbato per le strade di Betlemme come farebbe un uomo
qualsiasi. Ma proprio questa sequenza è invece emblematica di come Pasolini riesca straordinariamente a insinuare il sacro nel quotidiano senza soluzione di continuità. Appena prima dell’apparizione dell’angelo, una febbrile panoramica a scoprire arriva a inquadrare improvvisamente un nutrito gruppo di bambini che giocano, quasi fosse a sua volta un’epifania, preparando il campo alla visione mistica, viceversa la più sommessa che si possa immaginare.
Pasolini sembra dunque seguire ciecamente i propri protagonisti. E se questo avviene perché si tratta semplicemente dei personaggi di una sua opera, o perché intravede qualcosa di illuminante in ciò che si concretizza di fronte allo sguardo della cinepresa, sarà sempre arduo stabilirlo. Qualcosa di nuovo comunque, rispetto ai suoi film precedenti, salta facilmente all’occhio. E cioè che mentre lì il regista dimostrava di padroneggiare con sicurezza le proprie creature, di saper addomesticare in ultima battuta un materiale umano e sociale pur tanto febbrile da far parlare di riesumazione del neorealismo, qui sembra completamente abbandonarsi al fluire della pagina evangelica.
È proprio in questo afflato espressivo, che sta l’impressione di un film più religioso che laico. Di certo, poche altre volte nella storia del cinema una rappresentazione che tocca corde sacre, o anche soltanto
mitiche ed epiche, ha preso le mosse da un così sincero realismo.
(emilio ranzato)