Emilio Ranzato, L’Osservatore Romano 21/7/2014, 21 luglio 2014
SCOLPITO NELLA PIETRA
Molti sostengono, non a torto, che il momento più rappresentativo del cinema di Pier Paolo Pasolini sia concentrato nella mezz’ora e poco più de La ricotta, l’episodio da lui firmato all’interno di Ro.Go.Pa.G. (1963). La vicenda che vi si racconta – quella di «Stracci», ladrone buono in un film sulla Passione che muore davvero sulla croce per un’indigestione dovuta alla troppa fame – in effetti non potrebbe essere più emblematica della poetica del regista. Ma ci sono elementi a margine della lavorazione della pellicola, che ci dicono qualcosa di ancora più significativo non solo su Pasolini, ma su tutto il cinema di quei primi anni Sessanta.
Importanti, in particolare, sono gli altri nomi coinvolti nel progetto. Oltre a Ugo Gregoretti, infatti, firmano gli episodi Roberto Rossellini e Jean-Luc Godard. Mentre attore nel ruolo del regista ne La ricotta è Orson Welles, a cui il personaggio di un pedante e viscido giornalista pone varie domande, fra cui una su Federico Fellini. Domanda inevitabile, verrebbe da dire, visto che tutta la situazione messa in scena da Pasolini ha chiare discendenze felliniane, e che lo stesso Welles assomiglia vagamente ma forse non a caso al regista riminese.
Rossellini, Godard, Welles, Fellini, dunque. Quattro nomi che corrispondono a quattro coordinate fondamentali
dell’opera cinematografica pasoliniana dei primi anni. Rossellini rappresenta ovviamente il punto di partenza. Quel neorealismo che aveva dimostrato come si potesse fare poesia muovendo dal contatto diretto, spoglio con la realtà. Assunto cruciale cui pure Pasolini darà una personalissima interpretazione, arrivando persino a esiti in gran parte opposti rispetto alla rilevanza sociale e storica di quel modello, ovvero sfocianti da una parte nel mito, dall’altra nella mimesi autobiografica.
Se Rossellini aveva minato, con l’irrompere della realtà, il terreno del cinema narrativo, Godard gli darà il colpo definitivo sdoganando il linguaggio cinematografico poetico, ovvero il montaggio libero da regole espressive che non siano quelle dettate dalla poetica dell’autore stesso. Anche se Godard e Pasolini esordiscono alla regia quasi contemporaneamente, e i due arriveranno, più avanti, anche a una polemica sul rapporto fra cinema e politica, a metà decennio Pasolini si dichiara ancora
affascinato dal lavoro del collega francese. In cui non può
non vedere un punto di riferimento per associare a quel lessico neorealista di cui si è appropriato, una sintassi nuova, al passo coi tempi, ma soprattutto capace di dare respiro al fitto e persino ingombrante tessuto culturale e intellettuale che egli quasi suo malgrado possiede, e che invece avverte come una zavorra nella ricerca della verità di una qualsiasi rappresentazione artistica. Concetto che è proprio alla base de La ricotta. Dove la passione vera di Stracci si contrappone a quella posticcia che il regista colto e saccente interpretato da Welles voleva inscenare.
Lo stesso Welles rappresenta poi un nume tutelare per chi dirige film in questi anni. Per il suo tentativo rivoluzionario, ancorché fallito, di spezzare il sistema produttivo mettendo a capo di tutto la figura del regista. Il che, da un punto di vista politico, ne fa un antesignano
dei nuovi registi-autori. Ma anche perché con Quarto potere, e con il suo Charles Foster Kane cui nessuno riesce a dare una definizione univoca, aveva suggerito un tema fondamentale del cinema moderno. Ovvero la crisi della personalità.
Non sorprende che due dei capolavori del cinema della metà degli anni Sessanta, Otto e mezzo (1963) appunto di Fellini, e Il bandito delle undici (Pierrot le fou, 1965) appunto di Godard, affrontino questo tema. Questa crisi d’identità rappresenta infatti una deriva comune a una parte sempre maggiore del mondo artistico e intellettuale via via che ci si allontana dalle facili contrapposizioni e dalle istintive tensioni morali dell’immediato dopoguerra.
Nel collaborare con Godard, nel citare Fellini, nell’impiegare Welles come attore, il Pasolini dei tempi de La ricotta – e a un passo dal progettare Il Vangelo secondo Matteo – dimostra dunque di essersi sintonizzato su questa lunghezza d’onda. Di lì a poco, infatti, confesserà di essere affetto dallo stesso «morbo» di tanti suoi colleghi.
Nelle interviste, nelle poesie, in vari scritti, Pasolini tornerà quasi ossessivamente al concetto della crisi dell’intellettuale. In questo contesto, cita i nomi di altri scrittori, come Cassola o Bassani, per dimostrare come la crisi sia in effetti qualcosa di comune.
Di certo è una realtà personale sempre più evidente, che nasce anche e soprattutto da un’insoddisfazione nei confronti delle soluzioni marxiste ai problemi del mondo. Soluzioni a cui sfuggiva non a caso quel sottoproletario universale protagonista dei suoi romanzi e dei suoi film, incapace di inserirsi nella lotta di classe perché non appartenente ad alcuna classe. E a malapena capace di una coscienza anche soltanto individuale. Di contro, tuttavia, Pasolini non attenuerà mai i toni contro una Chiesa che, a suo parere, nell’istituzionalizzarsi perdeva completamente di vista il proprio spirito primigenio.
Alle soglie degli anni Sessanta, dunque, Pasolini sente di trovarsi in una terra di nessuno. In un periodo e in un Paese, per giunta, in cui non prendere una posizione precisa è ancora considerato di per sé una colpa. L’artista e intellettuale, insomma, è pronto a mettere
in scena la sua epocale crisi d’identità. E Il Vangelo secondo Matteo (presentato il 4 settembre 1964 a Venezia), con un Cristo interpretato da un sindacalista antifranchista, con la Madonna anziana impersonata dalla madre dello stesso regista, con la scena disseminata ancora una volta dai volti dei “suoi” sottoproletari, con la scabra ambientazione dei Sassi di Matera che ricorda molto le periferie primitive di Accattone, con i riferimenti alla pittura del Quattrocento già individuati nei due film precedenti, nasce infatti prima di tutto per Pasolini come scenario interiore, come presepe intimo in cui far confluire tutti gli elementi della propria tormentata e per molti versi contraddittoria ideologia.
Senonché, proprio l’umanità febbrile e primitiva che il regista porta un’altra volta sullo schermo, finisce per conferire un vigore nuovo al verbo cristiano, che in questo contesto appare ancora più attuale, concreto, rivoluzionario. Viceversa, il regista per il resto rispetta la pagina evangelica alla lettera, e non arretra affatto neanche di fronte al racconto dei miracoli, che mette anzi in scena con l’ispirazione degna di un credente. In questo modo, confermando cioè la validità e la forza della parola cristiana da una parte, ma dandogli un contesto più vero in cui potersi propagare dall’altra, il regista vuole certamente dare una stoccata tanto al mondo marxista quanto a quello ecclesiastico. Allo stesso tempo, però, forse inaspettatamente, trova un rifugio in cui vivere in pace la propria equidistanza da quei due poli.
Ecco dunque che quello che nelle premesse doveva essere il suo film su una crisi personale, la sua variante di Otto e mezzo e Il bandito delle undici, diventa invece un’opera che individua negli insegnamenti cristiani, restituiti però alla spoglia essenza di cui si invocava un ritorno già ne La ricotta, lo strumento per uscire da quella stessa crisi. Non è un caso, allora, che ai suicidi, benché surreali o solo immaginati, con cui terminano i sopracitati omologhi di Fellini e Godard, qui si contrappone una resurrezione. Girata anche questa, fra l’altro , con la spinta emotiva, la gioia e l’urgenza di chi, al di là delle dichiarazioni ufficiali, vi crede davvero.
Che sia un film su una crisi in atto o su un suo superamento, Il Vangelo secondo Matteo rimane comunque un capolavoro, e probabilmente il miglior film su Gesù mai girato. Sicuramente, quello in cui la sua parola risuona più fluida, aerea e insieme stentorea. Scolpita nella spoglia pietra come i migliori momenti del cinema pasoliniano.