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 2014  luglio 22 Martedì calendario

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO — È

un’operazione che gli analisti di Wall Street prevedono da record: l’Ipo (offerta pubblica iniziale) con la quale il gigante cinese dell’e-commerce Alibaba si quoterà alla Borsa di New York dovrebbe raccogliere tra i 15 e i 20 miliardi di dollari e valutare l’azienda a una cifra vertiginosa di 200 miliardi di dollari. Ma su questa operazione pianificata dal geniale Jack Ma pesano diversi misteri, in stile molto cinese nonostante le regole americane.
E in stile americano, ora che le carte dell’Ipo sono state presentate alla Sec (Securities & Exchange Commission statunitense), la stampa ha cominciato a indagare. Il titolo dell’inchiesta del New York Times è un segnale: «L’Ipo di Alibaba potrebbe rappresentare un gran colpo di fortuna per i figli dei leader cinesi».
La storia è complessa, sembra un gioco di scatole cinesi: nel 2012 il gruppo fondato nel 1999 dall’ex insegnante di inglese Jack Ma ricomprò circa la metà della partecipazione che aveva venduto a Yahoo. Costo del «buy back» 7,6 miliardi di dollari. Per trovare quei fondi Alibaba aveva venduto azioni a investitori selezionati, tra i quali il fondo sovrano di Pechino e tre società cinesi. Un po’ macchinoso ma legale; solo che secondo il New York Times dietro quelle società c’erano (e ci sono) figli e nipoti di alcuni dei dirigenti di primo piano della nomenclatura comunista: in testa Winston Wen, figlio di Wen Jiabao, che nel 2012 era primo ministro di Pechino. Di Wen Jiabao e delle ricchezze enormi accumulate dalla sua famiglia, il giornale americano si è già occupato un paio d’anni fa in un’inchiesta che ha causato la reazione furiosa della censura cinese: il sito del quotidiano ha subito un oscuramento che ancora dura. Ora la rivelazione che una bella fetta di Alibaba è di proprietà del private equity New Horizon Capital fondato da Wen junior. E ci sono altri nomi eccellenti tra i compagni d’avventura di Jack Ma: il nipote dell’ex presidente cinese Jiang Zemin, il laureato di Harvard Alvin Jiang, che è partner di Boyu, altro finanziatore del «buy back» del 2012; Liu Lefei, il cui padre Liu Yunshan è a capo della propaganda del partito comunista; Wang Jun, figlio di Wang Zhen, ex vicepresidente cinese, che faceva parte degli «otto immortali», com’erano definiti gli anziani rivoluzionari maoisti che guidarono Pechino negli anni 80. Tutti questi figli, nipoti e discendenti vari dei «grandi», in Cina si chiamano «Principi rossi».
L’e-commerce di Alibaba, svolto attraverso le efficientissime piattaforme Taobao e Tmall, l’anno scorso ha venduto prodotti per 250 miliardi di dollari, l’80 per cento del commercio online della Cina. I clienti registrati sono oltre 230 milioni. Valutazione complessiva del gruppo circa 200 miliardi, un primato mondiale: Amazon capitalizza in Borsa circa 137 miliardi, eBay 65. Così, anche un piccolo un per cento di Alibaba, ora che il gruppo si prepara a sbarcare al New York Stock Exchange, può rendere due miliardi di dollari a un Principe rosso.
Fino a quando le carte non erano state depositate alla Sec americana la composizione della proprietà poteva rimanere ignota, com’è tipico a Pechino. Ora non più. E ci sono state polemiche anche in Cina, per motivi nazionalistici: Jack Ma infatti ha dovuto rivelare che i maggiori azionisti sono gli americani di Yahoo e i giapponesi di SoftBank che insieme hanno un 70 per cento delle azioni. Jack Ma avrebbe un 8 per cento, ma si è assicurato il controllo delle operazioni attraverso la composizione del consiglio di amministrazione che per statuto in teoria può cambiare solo con il suo assenso.
Ci sono altri due dettagli che aggiungono ombre sulla vicenda: la settimana scorsa Alibaba ha annunciato che l’Ipo, prevista per fine luglio, slitterà a settembre. Perché questo è un periodo di volatilità del mercato, hanno detto fonti anonime all’agenzia governativa Xinhua . E il giorno dopo, sempre la Xinhua ha riferito che Alibaba aveva chiamato la polizia per denunciare un tentativo di ricatto da parte di un organo di stampa: una rivista cinese avrebbe chiesto 300 mila dollari per non pubblicare notizie sgradite.
Guido Santevecchi