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 2014  luglio 22 Martedì calendario

I TEDESCHI NON SPENDONO. ADESSO L’EUROPA INIZIA AD AVERE PAURA

Se ora anche la Germania rallenta, allora vuol dire che l’Europa rischia davvero di fermarsi. Che cosa succede nell’economia che da sola produce il 29% della ricchezza totale nella zona euro? La Bundesbank chiama in causa le «tensioni geopolitiche» nell’Est Ucraina e nel Medio Oriente. E spiega che nel secondo trimestre l’industria «ha scalato la marcia». La stessa cosa è accaduta in Italia, come ha riferito ieri l’Istat, ed è andata anche peggio in Francia.
La spinta della manifattura europea, dunque, resta debole. Le basi di una crescita «sostenibile», come dicono gli economisti, sono ancora insicure, precarie. Se è così, almeno per questa volta non sono di grande aiuto le analisi del Fondo monetario internazionale che, curiosa coincidenza, proprio ieri ha rivisto le cifre tedesche, prevedendo un aumento più alto del pil: 1,9% a fine 2014 contro la precedente stima dell’ 1,7%.
Se vogliamo guardare nei fondali di questa «stagnazione» non serve attardarsi su un paio di decimali in più o in meno. Come è noto la Germania ha convissuto meglio di tutti gli altri soci europei con la crisi finanziaria ed economica appoggiandosi sulle esportazioni nei vicini mercati Ue e in quelli lontani, Cina in testa. Da qualche mese, però, arrivano meno ordini da Paesi tuttora a corto di risorse. Risultato: l’industria tedesca ha dovuto, appunto «scalare la marcia». Dopo l’allarme della Bundesbank, diventa urgente riempire i vuoti lasciati dalle esportazioni con un aumento dei consumi interni, se si vuole riportare a pieni giri il motore delle imprese tedesche e, in seconda battuta, quello dei paesi partner. Ma il governo di Angela Merkel non sembra avere intenzione di favorire la staffetta tra domanda esterna e domanda interna.
E’ un problema, innanzitutto, di investimenti pubblici. Il dogma costituzionale del deficit zero si è trasformato in un divieto quasi assoluto ad aumentare la spesa statale. Il Fondo monetario nota che la Germania sarebbe in condizione di stanziare fino allo 0,5% del pil senza violare le regole di bilancio nazionali ed europee. In valori assoluti fanno circa 13 miliardi di euro. Ma questa cifra potrebbe tranquillamente essere moltiplicata per due, per tre, per quattro. E il motivo è molto semplice: nei conti tedeschi il rapporto tra deficit e pil oggi è pari allo 0,1% e quindi in teoria esiste un margine pari a circa 75 miliardi di uscite, prima che il disavanzo raggiunga la soglia limite del 3% sul prodotto interno lordo. Quale leader politico, quale capo di Stato, quale commissario europeo avrebbe da obiettare se il governo tedesco decidesse di stanziare qualche decina di miliardi per migliorare le infrastrutture o i servizi del Paese? E’ evidente che i benefici si allargherebbero a tutto il sistema economico europeo. Ecco, dunque, il tema politico ricavabile dall’analisi della Bundesbank: anziché chiedere sconti a Bruxelles, bisognerebbe convincere la Cancelliera Merkel a investire molto di più.
Un’altra traccia porta, invece, alla politica monetaria, come suggerisce Daniel Gros, economista tedesco, direttore del Ceps, il Centro di studi di politica europea con sede a Bruxelles. Osserva Gros: «L’idea di ridurre i tassi di interesse anche nel lungo periodo ha una controindicazione proprio in Germania, il Paese che acquista i bond di tutti. Per molti risparmiatori tedeschi, per esempio, i fondi complementari sono essenziali per integrare la pensione. Bene, nell’ultimo periodo il rendimento di questi fondi è sceso dal 3% all’1%. Ho calcolato che per gli Stati Uniti, Paese debitore, la riduzione di un punto percentuale del tasso di interesse si traduce in un risparmio di 70 miliardi di dollari. Per la Germania , che è Paese creditore, vale l’inverso, il reddito complessivo si riduce e di conseguenza calano i consumi».
Investimenti pubblici quasi inesistenti, consumi privati timidi: ecco che cosa nasconde la stagnazione tedesca. Italia, Francia e poi su orbite più larghe, Spagna e Portogallo ne subiscono i contraccolpi.
Solo la Gran Bretagna continua la sua corsa in una dimensione parallela. Ieri a Londra l’istituto di ricerca Item Club ha anticipato i numeri che saranno resi noti venerdì 25 luglio dall’Office for national statistics. La notizia è che il prodotto interno lordo britannico ritornerà al livello pre-crisi del 2008. Così mentre le economie continentali annaspano, la Gran Bretagna balza dello 0,8% solo nel secondo trimestre, con la prospettiva di raggiungere il 3,1% di crescita entro la fine del 2014. Il governo ha scelto una linea di sconti fiscali controversa, al limite del «dumping» nei confronti dei concorrenti europei. E comunque insostenibile per bilanci pubblici come quello italiano e francese. Non è a Londra, dunque, che si deve guardare.
Giuseppe Sarcina