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 2014  luglio 22 Martedì calendario

PERDONATO IL VANGELO DI PASOLINI

Una intensa, intensissima emozione, e una straordinaria rivelazione: questo fu nell’Italia del 1964 Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. Il più bel film mai girato su Gesù, scrive ora l’ Osservatore romano ricordando sia l’efficacia di quel Cristo e di quella Madonna – impersonati da un sindacalista antifranchista e dalla amatissima madre di Pasolini – sia lo scabro sfondo dei Sassi di Matera. Non c’è dubbio, un grandissimo film sulla religiosità e sull’uomo, sulla povertà e sulla speranza, sul dolore e sull’amore (e mi è difficile distinguere il giudizio di oggi dall’emozione che ne provai allora, giovanissimo laico che viveva in una città cattolicissima).
Un Gesù carico di tristezza e di solitudine, in cui Pasolini riversava la sua «nostalgia del mitico, dell’epico, del tragico », per usare le sue parole. Una nostalgia o una “resistenza” che si contrapponevano a quel che odiava di quel suo tempo: grigiore cinico e brutalità pratica, disponibilità al compromesso e al conformismo (ha scritto pagine acutissime, su questo, Nico Naldini). un tempo che non amava, al quale si opponeva in una tensione continua fra nostalgia e profezia – come è stato scritto – e contro il quale evocava, qui e altrove, “la scandalosa forza rivoluzionaria del passato”. Un film quasi senza tempo, Il Vangelo secondo Matteo, come tutti i capolavori, ma di cui solo il suo tempo può farci comprendere l’impatto. Occorre tornare all’Italia del 1964 per capire davvero quell’emozione e quella rivelazione- o meglio, quelle rivelazioni. Occorre tornare a quel che l’Italia era stata sin lì: l’Italia della censura più ottusa e violenta, l’Italia andreottiana che aveva condannato Umberto D di De Sica e l’Italia dei magistrati moralisti e censori alla Spagnuolo. Carmelo Spagnuolo, lo stesso che alla fine degli anni settanta sarà rimosso dal consiglio superiore della magistratura per dichiarazioni giurate a favore di Michele Sindona. Pasolini non c’era più ma non se ne sarebbe stupito: sapeva di che stoffa erano fatti i suoi persecutori: difficile trovare parola meno dura per gli attacchi cui i suoi film erano
stati sottoposti. Nel 1961 Accattone aveva proposto il mondo dei suoi romanzi sul sottoproletariato romano: dovette attendere per mesi il visto della censura e alla prima proiezione si susseguirono aggressioni e provocazioni di neofascisti. L’anno dopo fu la volta di Mamma Roma: a Venezia lo accolse una gazzarra di estrema destra, mentre un manifesto del Msi definiva gli intellettuali di sinistra “aborti mentali”, destinati a trasformare l’uomo in “tubo digerente”(per citare solo le volgarità minori). Nel 1963-l’anno prima del Vangelo secondo Matteo — La ricotta (il suo episodio di Rogopag, realizzato assieme a Rossellini, Godard e Gregoretti) è sequestrato il giorno stesso della sua uscita per vilipendio alla religione di stato, Pasolini è condannato a quattro mesi di reclusione (sarà poi assolto in appello). La commissione censoria vaticana non lo giudica neppure: il film è “escluso per tutti”, secondo i criteri di allora (il Centro cattolico cinematografico era da sempre feudo di Luigi Gedda, araldo del conservatorismo più oltranzista). E poco tempo prima, alla fine del 1960, l’“Osservatore romano” aveva difeso... la libertà di censura minacciata: la censura italiana, scriveva, non è moralmente libera di operare per la “quotidiana scatenata aggressione della stampa, di tutta la stampa, che l’accusa di tutte le nefandezze”. L’episodio pasoliniano di Rogopag raccontava non l’agonia di Gesù ma una storia che si svolgeva al margine di un film su di essa: un sottoproletario romano che interpreta uno dei due ladroni muore per indigestione, appunto, di ricotta. Il regista del film immaginario (un gigantesco Orson Wells, doppiato da Giorgio Bassani) dice: “Non aveva altro modo di ricordarci che lui era vivo”.
Un anno dopo, clamorosamente, l’impatto del Vangelo secondo Matteo “rivela” in primo luogo che quell’Italia-e quel mondo cattolico — sono in larga misura in via di scomparsa, espressione del passato: nella mia memoria non sono rimaste tanto le contestazioni della destra politica o del conservatorismo religioso quanto
i riconoscimenti che il film ebbe anche nel mondo cattolico (ad esempio il Premio dell’Office Chatholique International du Cinema, che lo proiettò a Nôtre Dame) È rimasto, soprattutto, lo straordinario impatto che esso ebbe nei fermenti che erano stati alimentati dal Concilio Vaticano II e da un grandissimo Pontefice. Del resto l’idea stessa del Vangelo era venuta a Pasolini alla Cittadella d’Assisi, un “luogo” fondativo di quei fermenti, in un convegno su “Il cinema come forza spirituale nel momento presente”. E il film è dedicato con naturalezza “alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIIII”. Qui sta forse una delle grandi chiavi che stanno alla base della “rivelazioni” innescate dal film, e più ancora dal suo impatto. Impossibile non ricordare anche la Pacem in terris, quell’ultima grande enciclica di papa Roncalli che si rivolgeva a “tutti gli uomini di buona volontà”. E che prendeva atto delle novità dirompenti del mondo moderno (cui sino ad allora il mondo cattolico era stato largamente estraneo, se non ostile): l’ascesa dei popoli del “terzo mondo”, come allora si diceva, l’importanza delle classi lavoratrici, il nuovo ruolo della donna. Per molti versi quell’enciclica sanciva la fine della fase più aspra della “guerra fredda”, e nel nostro paese aprì la via a confronti quasi impensabili sin lì: in quello stesso 1964 usciva un libro come Il dialogo alla prova, a cura di Mario Gozzini, che metteva a confronto intellettuali cattolici e comunisti. E “dialogo” era la parola chiave di una svolta che il centrosinistra stesso aveva avviato e che si apriva ora a ulteriori, radicali ipotesi. L’impatto di quel film rivelò, insomma, che era cambiata l’Italia, nel grande scenario internazionale, ed era cambiato il mondo cattolico: e solo i grandi film possono innescare le grandi illuminazioni.