Federico Rampini, la Repubblica 22/7/2014, 22 luglio 2014
I REPORTER CON LO SPONSOR
«Questa inchiesta giornalistica è stata realizzata grazie ad un finanziamento iniziale di Microsoft. Il computer che ho usato è stato offerto da Hewlett Packard. Ho potuto comunicare con la redazione grazie ad un collegamento wi-fi offerto da Cisco e con uno smartphone Samsung. I miei biglietti aerei sono un omaggio di Singapore Airlines». Il lettore continuerebbe a leggere il seguito, dopo un incipit di questo tipo? E se continuasse, avrebbe lo stesso atteggiamento, la stessa disponibilità, oppure diventerebbe più diffidente e circospetto ad ogni affermazione contenuta nell’articolo? Benvenuti nell’era del Native Ad, il nuovo giornalismo che in America dilaga sotto diverse forme. “Native Ad”, cioè letteralmente pubblicità indigena, che nasce e viene concepita dentro il giornale stesso, talvolta scritta da redattori che firmano altri articoli di tipo tradizionale, quelli senza lo sponsor.
Il dibattito attraversa i più grandi gruppi editoriali, dal New York Times a Time Magazine, dalla Cnn a Condé Nast. Ciascuno offre risposte diverse, nessuno può sottrarsi alla sfida. All’origine c’è un vincolo economico a cui nessuno riesce a sottrarsi. L’informazione costa. Fonti tradizionali di sostentamento dei media, dalla pubblicità agli abbonamenti, hanno subito l’impatto della crisi economica e delle rivoluzioni tecnologiche. Per sopravvivere tutti i media, anche i più prestigiosi, sono alla ricerca di un nuovo business model , un’equazione economica sostenibile. Perfino il quotidiano più letto e piu` autorevole d’America, il New York Times , ha vissuto fasi turbolente: il licenziamento in tronco della sua direttrice Jill Abramson ha coinciso con la pubblicazione interna di un documento strategico sulle sfide del futuro, elaborato dal figlio dell’editore Sulzberger. E proprio Jill Abramson era stata protagonista di uno scontro molto acceso in un convegno pubblico sul Native Ad. La direttrice aveva preso le distanze da queste forme di pubblicità “redazionale” confezionate come articoli, spesso da ottimi professionisti, con profusione di qualità e leggibilità. «Non mi convince – disse la Abramson in quell’intervento poco prima di essere cacciata – si crea confusione nel lettore-consumatore. Confusione sulla provenienza di quei contenuti, e sulla dissimulazione di un messaggio pubblicitario sotto le apparenze di una notizia pura».
Ma una strada diversa è quella imboccata dal predecessore di Jill, quel Bill Keller che aveva diretto il New York Times subito prima di lei. Keller ha lasciato il suo posto di editorialista per lanciarsi in un’avventura nuova. Una start-up, un sito d’informazione online gestito attraverso una Ong non-profit. Si chiama The Marshall Project , si occuperà soprattutto dei problemi della giustizia, delle carceri. Ma raccoglierà fondi tra i privati, sollecitando una forma di mecenatismo al servizio dell’informazione. È solo l’ultimo esempio di una tendenza che si rafforza. Giornalismo investigativo, finanziato da singoli cittadini appassionati, o più spesso da capitalisti generosi che staccano assegni… in cambio di che cosa esattamente? Per alcuni non c’è contropartita visibile né occulta, solo un genuino interessamento al futuro dell’informazione. Esistono americani ricchi che si preoccupano sinceramente sul destino di una democrazia dove s’indebolisce il contropotere per eccellenza, cioè la stampa. Da Warren Buffett a Bill Gates, una corrente di imprenditoria progressista vuole mettere le proprie fortune al servizio di cause nobili, incluso il finanziamento per reportage, inchieste, giornalismo investigativo. Sulla West Coast, la più esposta agli shock delle rivoluzioni tecnologiche, giornali dalla storia gloriosa come il San Francisco Chronicle e il Los Angeles Times attingono a piene mani agli articoli prodotti esternamente, da ong non profit, dietro le quali c’è il mecenatismo privato. Qui però il confine sembra preciso, a garanzia del lettore. I mecenati non scelgono il tema dei singoli articoli. La garanzia d’indipendenza del giornalista è affidata a dei
“corpi intermedi”. È un po’ quel che accade nelle grandi università private, luoghi di eccellenza come Harvard e Stanford. Spesso hanno statuti non-profit, ricevono ricchi finanziamenti dall’industria privata, ma rettori e presidenti e senati accademici vigilano (quasi sempre) sull’autonomia della ricerca scientifica.
Il mondo del Native Adè diverso. Un colosso come Time ha creato al proprio interno un Native Ad Group che cura questi articoli destinati ai siti. Lo scopo è «attirare l’attenzione dei lettori imitando il contenuto editoriale delle altre notizie ». Editore e manager pubblicitari del gruppo Time si dicono concordi sul fatto che «i lettori sono felici di consumare contenuti in questa forma, non si curano se vengano da giornalisti puri o se dietro ci sia l’appoggio di un brand, un marchio». Il capo di questa task- force nel gruppo Time è Chris Hercik del magazine Sports Illustrated . «La creatività - dice – non soffre se è al servizio della pubblicità». Inchieste ormai consuete da anni come “I 10 luoghi migliori dove abitare” o anche “Le dieci località migliori per i gourmet appassionati di alta cucina” sono ampiamente finanziate da sponsor. La Cnn dal canto suo sta producendo un’intera inchiesta a puntate, “City of Tomorrow”, su come le città cercano di migliorare la qualità della vita dei propri abitanti. Ha uno sponsor unico, il gigante dell’informatica Cisco. L’importante è che si sappia, dicono alla Cnn, convinti che la qualità dei propri giornalisti faccia il resto: il reportage a puntate avrà lo stesso livello di serietà e approfondimento di qualsiasi altra inchiesta targata Cnn, garantiscono al quartier generale di Atlanta.
L’ottima rivista The Atlantic , notoriamente di sinistra, scatenò la protesta dei suoi lettori pubblicando un lungo articolo elogiativo su Scientology, la setta religiosa a cui appartengono delle star come Tom Cruise. Che si trattasse di un “redazionale pagato” era abbastanza evidente ma questo non placò affatto l’ira dei lettori. Quasi tutti i giornali hanno degli statuti interni che regolano il Native Ad, ad esempio escludendo dai possibili finanziatori l’industria militare o petrolifera, Big Tobacco oppure dei medicinali che vantano effetti benefici non confermati dalle autorità sanitarie. Il celebre sito Vice specializzato in inchieste di denuncia non disdegna finanziamenti privati purché ci sia una “muraglia cinese” a tutela della redazione. Le controversie sono destinate a moltiplicarsi via via che i confini diventeranno più incerti, opinabili, e le confusioni dei ruoli si accentueranno su ogni fronte: nell’era in cui le multinazionali investono sulla propria immagine etica, quando usciranno articoli sulla conservazione dell’energia e la lotta al cambiamento climatico, co-sponsorizzati da Exxon e Greenpeace?