Vittorio Lingiardi , Il Sole 24 Ore 20/7/2014, 20 luglio 2014
MASCHIO E ANCHE DONNA
Il termine «transessualismo» è stato impiegato per la prima volta all’inizio del secolo scorso per indicare un’ampia gamma di condizioni che oggi vengono descritte e differenziate con molta attenzione. Sempre più oggetto di ipotesi scientifiche e riflessioni sociali il tema continua ad appartenere al regno del mysterium fascinosum et tremendum. Nel frattempo, almeno nel DSM-5, transita diagnosticamente dalla dimensione di disturbo a quella di disforia, a non sottolineare più la malattia bensì la sofferenza soggettiva di una condizione somatopsichica intollerabile al punto da invocare la riassegnazione sessuale chirurgica. Nonostante i progressi compiuti in questi anni, dei meccanismi alla base della disforia di genere sappiamo ancora ben poco. Come poco sappiamo della prevalenza del fenomeno nei bambini, sia come MtF (maschio che si sente donna) sia come FtM (viceversa). Come spesso succede, abbiamo a disposizione più dati sugli interventi medici di adeguamento fisico che non certezze sui meccanismi implicati nella formazione e costruzione dell’identità di genere. Possiamo però tentare un elenco di argomenti che è necessario conoscere prima di parlare di un tema che, proprio perché sempre più mediatico, non deve cessare di essere scientifico: il ruolo degli ormoni sessuali e della genetica nello sviluppo dell’organizzazione cerebrale e dell’identità e disforia di genere; il modello bio-psico-sociale dello sviluppo di chi presenta, fin dall’infanzia, disforie o anche semplici non conformità rispetto al genere assegnato alla nascita e/o alle aspettative sociali rispetto al genere; le storie e le culture delle identità di genere; i pro e i contro degli interventi medici precoci in adolescenti con disforia di genere; le eventuali comorbilità psichiatriche in individui con disforie di genere; l’impatto dello stigma sullo sviluppo e la salute mentale delle persone transgender.
Questi e altri temi cruciali, affrontati con padronanza della letteratura scientifica, compassione umana e forza etica, sono trattati nel bel volume Gender Dysphoria and Disorders of Sex Development. Progress in Care and Knowledge pubblicato da Springer e curato da Kreukels, Steensma e de Vries. Il volume è un omaggio a Peggy Cohen-Kettenis, da poco in pensione. Tra le maggiori esperte di transessualismo, Cohen-Kettenis ha insegnato psicologia presso la Vrije Universiteit di Amsterdam, ha curato la sesta edizione degli Standards of Care for Gender Identity Disorder, è stata responsabile della task force del DSM-5 ed è membro del gruppo di esperti su «sexual disorders and sexual health» dell’OMS.
Il rilievo scientifico di Cohen-Kettenis è dovuto al fatto che le sue teorie sul genere sono fortemente ancorate a dati empirici. Con la pubblicazione, nel 1999, dell’articolo Transsexualism: a review of etiology, diagnosis and treatment, ha rivolto molte critiche agli approcci teorici univocamente esplicativi. Per quanto riguarda i fattori psicologici indicati da molti autori (per esempio, la "beata simbiosi" di Stoller, l’angoscia di separazione di Person e Ovesey, il trauma di Coates, per non parlare di alcune teorizzazioni psicoanalitiche che considerano quello del transessuale un "delirio psicotico"), Cohen-Kettenis lamenta la scarsa verifica empirica, dovuta anche alla difficoltà di operazionalizzare queste variabili. Nei quadri clinici della disforia di genere, dice, queste caratteristiche possono esserci come non esserci: quindi non sono sufficienti per la diagnosi. Secondo la studiosa olandese, infatti, i fattori in gioco nello sviluppo del transessualismo sono troppi per isolarne solo alcuni e, anche in campo biologico (alterazioni cromosomiche, ormonali, della differenziazione cerebrale) ci sono ancora troppe zone d’ombra per tirare delle conclusioni. Sono però proprio i risultati di ricerche cliniche ad aver radicalizzato la convinzione di Cohen-Kettenis di anticipare, nei casi di comprovato transessualismo e in situazioni in cui da parte della famiglia ci siano accettazione completa e sostegno, la somministrazione di ormoni che bloccano lo sviluppo sessuale (ma la cui azione è reversibile) ad adolescenti non di 16, come prevedono gli Standards of Care, ma di 12 anni. I vantaggi sarebbero psicologici: per chi ha un’identificazione cross-gender estrema e persistente fin dalla primissima infanzia, iniziare la terapia ormonale dopo i 16 anni può comportare notevoli sofferenze psicologiche; diagnostici: senza lo stress causato dallo sviluppo dei caratteri sessuali secondari, l’adolescente ha più tempo per esplorare la sua identità di genere e la diagnosi potrà essere più precisa; chirurgici: interventi su corpi meno sviluppati sessualmente sono decisamente meno invasivi; di prevenzione: spesso gli adolescenti si rivolgono, ben prima dei 16 anni, a fonti illecite e pericolose di ormoni, allontanandosi dai centri specializzati.
Il 22 giugno scorso, su queste pagine («Perché il corpo diventa una gabbia»), il collega Arnaldo Benini ha affrontato con la consueta sharpness il tema del transessualismo, riducendolo a problemi di "sessualità cerebrale". Lungi da me mettere in dubbio il ruolo cruciale dei geni e dei fattori che regolano le interazioni tra gli ormoni sessuali e i neuroni. Aggiungo che se in passato molti psicoanalisti avessero guardato con più attenzione biologica ai meccanismi che governano i corpi e le sessualità molte sofferenze (e molte stupidaggini) ci sarebbero state risparmiate. Sarei però meno categorico nell’escludere ogni interazione tra gli sviluppi dei generi e degli orientamenti sessuali e l’ambiente.
Dice: «la sessualità cerebrale determina le caratteristiche psicologiche di maschi e femmine (...) Bambine di 5-6 anni giocano con le bambole, disegnano fiori, donne, uccelli e farfalle con colori vivaci: i bambini preferiscono giocattoli tecnici, e disegnano soldati, grandi animali, scontri e battaglie». Questi atteggiamenti univocamente cerebrofili rischiano di consegnare "per natura" le bambine ai fiori e all’empatia e i bambini ai soldatini e ai comportamenti esplorativi. In ogni società i ruoli di genere sono anche una variabile trans-culturale e perfino sub-culturale. La costruzione delle mascolinità e delle femminilità finisce per modellarsi anche sulla base delle aspettative familiari e delle pressioni sociali. È curioso come certe convinzioni freudiane (per esempio maschio attivo/femmina passiva), una volta cacciate dalla porta della psicoanalisi possano rientrare da quella delle neuroscienze.
In una delle scene conclusive di Parla con lei, Almodovar fa dire a Geraldine Chaplin: «Sono maestra di ballet, e nulla è semplice». Ecco: nulla è semplice, men che meno le sessualità e i generi. Per esempio, cosa intendi dire, Benini, quando scrivi che il Gender Identity Disorder (cioè la vecchia diagnosi DSM-IV-TR) «è la condizione di chi sente che il suo genere biologico (organi sessuali) non coincide con la sua identità (o orientamento) sessuale»? Oppure: «se identità di genere e biologia, per un difetto probabilmente del metabolismo del testosterone, non coincidono, la persona si sente estranea al corpo. Sono le condizioni, con molti stati intermedi, della transessualità. La repressione (...) dell’identità non eterosessuale può provocare molta sofferenza». L’intenzione è ottima, ma purtroppo attenuata dalla sovrapposizione genere/orientamento. Da chiamare in causa non era l’identità non eterosessuale (chi mi piace), ma quella di genere (a che sesso/genere mi sento di appartenere). In che modo, infatti, un genere biologico potrebbe coincidere con un orientamento sessuale? È noto che omosessuali, eterosessuali o bisessuali possono esserlo maschi, femmine, trans FtM, trans MtF e così via. Tra identità di genere, ruolo di genere e orientamento sessuale non c’è un rapporto obbligato. Il fatto che alcune persone appaiano più gendery di altre ci dice per forza qualcosa del loro orientamento sessuale? Ci troviamo in campo aperto, e non abbiamo mappe sufficientemente dettagliate per confinare i territori delle sessualità.