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 2014  luglio 20 Domenica calendario

LETTERE DI CHI NON SI PIEGA


Maledetti email. L’intrinseca deperibilità dei messaggi di posta elettronica (chi di noi li stampa sistematicamente? e chi di noi ha conservato quelli di quindici o vent’anni fa?) condannerà gli storici a fare a meno degli epistolari. Niente più carteggi per ricostruire vicende d’amore o d’amicizia, rapporti di lavoro, sodalizi intellettuali. Nulla più nel genere delle lettere di Cicerone ad Attico, di Machiavelli a Vettori, di Kleist a Wilhelmine von Zenge, di Gustave Flaubert a George Sand... Impossibile, in futuro, anche una primizia culturale come questo epistolario pubblicato dall’Accademia nazionale dei Lincei per cura di Maurizio Martirano: lungo sessant’anni di storia e di amicizia, il dialogo tra Luigi Salvatorelli e Giorgio Levi Della Vida.
Coetanei – nati entrambi nel 1886 – i due si erano incontrati sui banchi dell’università, studiando lettere classiche nella Roma di primo Novecento. E tutta letteraria, per non dire accademica, era stata la prima cifra del loro sodalizio, tra pubblicazioni erudite e ambizioni concorsuali. Più nerd, fin dall’inizio, Levi Della Vida: precoce così negli studi di ebraistica e di arabistica come nella scelta di prendere moglie e di fare figli. Un po’ dandy, almeno all’inizio, Salvatorelli: che ancora nel luglio 1915, con l’Italia ormai dentro la Grande Guerra, confessava all’amico di non riuscire a scaldarsi per la «situazione internazionale», preso com’era dalle «amorose dilettazioni» e dalla «insaziabilità del desiderio».
Se Levi Della Vida era riuscito a evitare l’esperienza di trincea, Salvatorelli l’aveva affrontata con una baldanza che sconfinava nella leggerezza. «Eccomi in ballo, senza troppo dispiacere e con una certa curiosità» aveva scritto dalla zona di guerra, nell’ottobre 1916, nelle sue vesti di sottufficiale dei bombardieri. Perfino un anno più tardi – in piena rotta di Caporetto – l’umbro Salvatorelli aveva trovato modo di aggiornare l’amico con toni da toscanaccio, come un Curzio Malaparte ante litteram: «Io, del resto, marcio magnificamente e me ne infischio». «Imboscatissimo» durante i mesi successivi, Salvatorelli ammetteva tuttavia di uscire dalla guerra mondiale come un uomo diverso. Meno appassionato di prima ai suoi studi di storia del cristianesimo; più sollecitato dall’attualità politica e sociale, oltreché innamorato di una donna che adesso voleva sposare.
A guerra finita Salvatorelli saltò il fosso. Lasciò la cattedra universitaria e si tuffò nella professione giornalistica, da condirettore della «Stampa» di Torino. Editorialista di respiro nazionale, mise a punto una lettura storica del presente italiano destinata a fare epoca: l’interpretazione del fenomeno fascista come rivoluzione piccolo-borghese, «nazionalfascismo». Ma le lettere scambiate allora con Levi Della Vida dimostrano oggi quanto la visione di Salvatorelli corrispondesse, in ultima analisi, a una sottovalutazione del movimento politico guidato da Benito Mussolini. Il 14 ottobre 1922 – quando mancavano due settimane alla marcia su Roma – il condirettore della «Stampa» si diceva scettico sull’eventualità che Mussolini tentasse veramente un colpo di mano, e profetizzava: «in caso che il colpo avvenga, ritengo che la débâcle fascista seguirebbe a breve scadenza».
Neppure Salvatorelli era capace di riconoscere nella marcia su Roma qualcosa di più serio che «una carnevalata». Quanto a Levi Della Vida, gli capitava di rimpiangere che il prevedibile fallimento della scommessa di Mussolini significasse una nuova vittoria per l’immarcescibile Giolitti. «Il paese sorge, sì, ma, al solito, alla maniera giolittiana, ossia coi medicamenta e non col ferrum né coll’ignis». «Al solito, il Messia non c’è, e nemmeno i sogni messianici». Tutta la cultura storica, tutta l’acutezza critica di due grandi intellettuali come Levi Della Vida e Salvatorelli non garantivano loro una sufficiente sensibilità antropologica: non li aiutavano a cogliere tra i caratteri originali del fascismo – precisamente – il rovesciamento carnevalesco e l’investimento messianico.
Levi Della Vida rinunciò a scrivere sui giornali immediatamente dopo la Marcia, Salvatorelli attese un paio d’anni in più, ma non oltre l’inizio del 1925. I due amici si ritirarono quindi nel mondo degli studi. L’uno a Roma l’altro a Torino, da esuli in patria. O da stoici nelle monarchie ellenistiche, come Levi Della Vida sentiva di poter dire. O da «forzati della penna», come ironizzava Salvatorelli: costretti a sobbarcarsi le più varie incombenze redazionali, avendo entrambi perduto la loro principale fonte di reddito. Salvatorelli era stato cacciato dalla «Stampa» per effetto della crisi seguita al delitto Matteotti, Levi Della Vida fu allontanato dall’università per essersi rifiutato di prestare, nel 1931, giuramento di fedeltà al regime fascista.
Bisogna leggerle, le lettere di questi due uomini oggi dimenticati, per toccare con mano che cosa possa essere la libertà della coscienza sotto un governo autoritario. Bisogna vederli, i due amici ingrigiti, mentre laboriosamente discutono i loro progetti di ricerca e infaticabilmente si scambiano dritte bibliografiche. Bisogna seguirli quando l’uno offre all’altro un piccolo prestito («un paio di migliaia di lire, senza alcuna urgenza di restituzione»), e l’altro accetta senza giri di parole («mi faresti un gran piacere se mi potessi mandare 1.000 £, che io poi ti restituirei, in una o due rate»). Bisogna ascoltarli quando – nel prolungarsi interminabile dell’esilio in patria – mutualmente si consolano con un verso di Virgilio, Durate, et vosmet rebus servate secundis. Perseverate, e serbatevi a migliore avvenire.
Migliore avvenire? Nel novembre del 1935, completato un «Elenco dei manoscritti arabi islamici della Biblioteca Vaticana», Levi Della Vida viene accolto in udienza nientemeno che dal papa, Pio XI: pontefice non dimentico, evidentemente, dei propri trascorsi di orientalista oltreché di prefetto della stessa Vaticana. Ma tre anni più tardi il prestigio scientifico di Levi Della Vida non vale a proteggerlo dagli effetti diretti o indiretti della legislazione antiebraica promulgata dal fascismo. 1° dicembre 1938: «Per ora io e la mia strettissima famiglia non abbiamo di che lagnarci: dico "per ora", giacché non sono sicuro del futuro; ma quanti dolori hanno colpito parenti, conoscenti e, a prescindere dalle relazioni personali, quanta malinconia per l’andamento generale delle cose!».
Nove mesi ancora, ed ecco il professore di islamistica impugnare la penna dal porto di Genova: scrive a Salvatorelli mentre è già imbarcato su un transatlantico, lo aspetta una cattedra oltreoceano, alla University of Pennsylvania. Per parte sua, l’ex condirettore della «Stampa» continua a vivere – anche dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale – la sua vita di forzato della penna. Pubblica una storia divulgativa dopo l’altra, ma con un sentimento di frustrazione sempre più forte. «Si vede che il mio destino, com’è stato quello di un semipolitico, così è quello di un semistorico: né carne né pesce», riassume nel gennaio 1940 a beneficio del suo nuovo amico americano.
Del resto, Salvatorelli confessava a Levi Della Vida di guardare ormai agli Stati Uniti d’America come all’«Eden di questo nostro globo». E aggiungeva speranzoso, riferendosi agli sviluppi della guerra mondiale in corso: «vedremo se questa volta si arriverà agli Stati Uniti d’Europa». «Se no, tutto sarà stato invano».