Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  luglio 20 Domenica calendario

IO, ARTIGIANA DI UN CINEMA CHE NON C’È PIÙ, VOLEVO FARE LA SEGRETARIA


Francesca Rivelli aveva 14 anni e non si chiamava ancora Ornella Muti: “Damiano Damiani girava La moglie più bella. Accompagnai mia sorella Claudia al provino e appena mi vide il regista disse ‘voglio te’. Non avevo capito a cosa stessi andando incontro. Il primo film non fu una bella esperienza. Prima mi cambiarono nome, poi iniziarono a urlare tutti. All’epoca il set era un circo e i domatori, per impedire che le bestie si ribellassero, usavano il pugno duro. C’era grande nervosismo, una certa brutalità di base nei rapporti quotidiani e Damiano, non so come dire, era un po’ violento. Finite le riprese nutrivo il solo desiderio di scappare da quel mondo e la certezza che con camerini e roulotte avrei chiuso lì”. A quasi mezzo secolo di distanza, dopo 95 film, l’attrice che secondo Gianna Nannini turbava l’immaginario erotico del maschio italiano non si cuce più la bocca. Alterna lingua madre, inglese e dialetto romanesco. Ride spesso. Si gira verso gli amici in cerca di approvazione, siede nell’anonima anticamera di una sala prove a sud di Roma, fuma assolvendosi dal peccato: “Non più di 6 al giorno”, filtra bagliori dell’antico splendore che tra i ’70 e gli ’80 rese felici gli esercenti da Aosta a Caltanissetta e descrive un paradiso itinerante tramontato senza un perché: “Eravamo maestri. Magari artigiani, ma di un artigianato che sapeva far scuola e godeva di incondizionato rispetto. Giannini mi raccontò di un incontro con Spielberg. A Venezia era stato proiettato E.T. e Giancarlo andò a complimentarsi: “What a wonderful movie, Steven. You are a genius”. Spielberg non lo lasciò neanche finire: ‘Ma che dici? Non ho fatto altro che vedere Miracolo a Milano e copiare Ladri di Biciclette’. Oggi al cinema, se escludi Zalone, non va più nessuno, le commedie sono tutte uguali e di scrittori straordinari come Age, Scarpelli, Benvenuti o De Bernardi è rimasto solo il ricordo. Provate a proporre a un dirigente Rai del 2014 un copione come Umberto D.”.

Che succederebbe?

Niente. Non succederebbe niente. Te menano direttamente.

Le dispiace?

Molto, anche se la mia scelta non somigliava a una vocazione. Nei primi sogni in prospettiva volevo diventare un’interprete, una maestra d’asilo, una ballerina o la segretaria poliglotta e assolutamente indispensabile di un grande manager. Una persona capace di gestire un’agenda alla perfezione.

Come mai?

Sono nata sotto il segno della Vergine, ho spiccati tratti di maniacalità e ho attraversato un’infanzia complicata. Mio padre, un giornalista napoletano molto allegro, spiritoso e con velleità da cuoco, morì giovane. Poi mi ammalai e rimasi a letto per un anno. Avevo voglia di sentirmi apprezzata.

Le accadde al cinema.

Dopo l’esordio ebbi fortuna. Giorgio Stegani, un amico, mi offrì una parte in un piccolo film girato nelle isole pontine.

Si intitolava Il Sole nella pelle, anno di grazia 1971.

Io e Alessio Orano, che poi sposai, eravamo due Robinson alla deriva tra Ponza e Palmarola. Giorgio si divertiva a farci recitare e noi ci sentivamo protetti. Niente di meglio per superare lo choc iniziale del debutto con Damiani.

Il film di Stegani era modesto.

Era poco più di un gioco e lo affrontai con leggerezza. Ma nessuno me lo impose. Ho fatto tante cazzate e prestato il volto a prodotti discutibili, ma ho sempre deciso in prima persona su quale treno viaggiare. C’è un solo film che non avrei dovuto interpretare e che cancellerei dalla memoria.

Quale?

Fiorina la vacca di Vittorio De Sisti. Era un film così inutile. Così stupido. Accettai senza riflettere e mi trovai malissimo.

Nel 1974 Monicelli le offrì il ruolo di Vincenzina in Romanzo Popolare.

Per Vincenzina non trovavano la faccia giusta. Si erano prodotti in ricerche estenuanti ricorrendo persino agli appelli radiofonici.

Trovarono lei.

Ma rischiai comunque di non farlo. Al primo giorno di riprese mi presentai da Mario: ‘Sono arrivate le analisi, aspetto un bambino, se credi puoi sostituirmi immediatamente’.

E Monicelli?

‘Neanche per idea, ce la faremo’. A sapere della maternità eravamo in tre. Io, Mario e Carlo Vanzina, il suo aiuto regista. Sarte e costumiste non capivano. Alle prove si era presentata una ragazza magra di 18 anni a cui il seno lievitava a vista d’occhio senza ragione apparente.

Il rapporto con il grande vecchio?

Ottimo. Monicelli era burbero. Viveva in una certa maniera ed era coerente con se stesso. Andava al sodo. Detestava fronzoli, orpelli e perdite di tempo. Aveva le idee molto chiare, girava solo quello che era strettamente necessario e noi attori, felici, lavoravamo pochissimo.

Suo compagno di riprese, Ugo Tognazzi.

Un fratello. Tutti a dirmi: ‘È un ossesso, ci proverà senza sosta, ti assedierà’ e invece, niente. Era un galantuomo di rara sensibilità. Nei momenti di confusione, anche fuori dal set, l’ho sentito sempre vicino. Negli ultimi anni e fu una vera vergogna, l’Italia se lo dimenticò e lo costrinse all’esilio in Francia. Ugo era depresso: ‘Non mi fanno più lavorare’. Accadde lo stesso anche a Dino Risi. Osarono sottovalutarlo considerandolo un regista minore. Altro scandalo.

Per Risi, con Tognazzi ancora in veste di complice, lei interpretò tre film.

Dino sbraitava con chiunque. Da quest’uomo alto, serio, con gli occhi chiari, il sorriso sardonico e il cinismo dipinto sul volto ero terrorizzata . Ne avvertivo sottotraccia l’aggressività e mi chiedevo quando mi sarebbe toccata la mia parte di tempesta. Non venne mai, anche se verso le ragazze giovani che non si chiamavano Monica Vitti, non è che si usassero poi chissà quali delicatezze. In compenso, sul versante bellico, mi rifeci con Marco Ferreri.

Ne L’ultima donna le affidò la complicata parte di una femmina che provoca nell’uomo profonde e irreversibili crisi esistenziali.

Se intuiva una fragilità, Ferreri correva a mettere il dito nella piaga. Finimmo il film parlandoci solo attraverso l’intermediazione di una terza persona. Mi odiava, mi odiava a morte e io ricambiavo sentitamente. Il set fu infernale, faticosissimo, agghiacciante. Suonava la sveglia e mi giravo dall’altra parte. Non ci volevo andare, dovevo sforzarmi ogni santa mattina.

Quali erano i motivi del dissidio con Ferreri?

Non diversamente da Monicelli, Marco mi rimproverava l’attitudine di base: ‘A Francè, tu vivi dentro Disneyland’. A me sembrava un complimento, ma avevano ragione loro. Stare tra le nuvole non era un pregio, ma una patologia. Lo capii troppo tardi. Passò qualche mese e un giorno, dopo aver visto il film, Ferreri chiamò il mio agente: ‘Puoi dire a quella stronza che è venuta proprio bene’. Da allora il rapporto mutò di segno. Facemmo un altro film tratto dai racconti di Bukowski e poi un terzo, Il futuro è donna. Ferreri mi venne a cercare in Svizzera, ai tempi in cui aspettavo il mio secondo figlio. ‘Marco nun se può ‘ffà, sono in cinta, lo vedi da te’.

E Ferreri?

Andò in visibilio. Parlava di luna piena, di bellezza divina e nel pancione leggeva chissà quale simbolismi. Sul set fu più di un padre premuroso. Si preoccupava che uova e frutta fossero sempre fresche e se c’era da girare una scena faticosa chiamava la controfigura. Rispetto ai nostri inizi, una metamorfosi totale: ‘Hai visto che non sò un infame alla fine?’.

Prima della terza prova con Ferreri, assecondando la curva di una parabola eterogenea, girò con Pozzetto e Celentano film che incassarono miliardi.

Io non so quello che posso dire di Adriano e ho paura di ciò che vorrei dire davvero, però dopo anni di rispettoso silenzio in omaggio alle ragioni dei figli, delle mogli e dei mariti, visto che l’embargo è caduto, una cosa la dirò.

Siamo qui.

A margine di un processo, di botto e senza alcun preavviso, Adriano ha confessato ai giornalisti di avere avuto una storia d’amore con me. Era vero, ma sono rimasta colpita. Se aveva proprio intenzione di rivelarlo e necessità di liberarsi del segreto, sarei stata felice di saperlo in anticipo. Però gli uomini sono fatti così.

Come sono fatti?

Se ne fregano.

Cosa le è rimasto del lavoro con Adriano?

La partecipazione ad avventure molto divertenti. Girare con Adriano, pur con tutte le sue fisime e le sue manie, era uno spasso. La troupe rideva senza sosta. In alcuni momenti, per il clima che si respirava, non si poteva neanche battere un semplice ciak. Sui set celentaneschi poi, conobbi un amico prezioso. Vincenzino Falsaperla. Fotograva il Clan da decenni, ma prima che su me e Adriano si addensassero i sospetti, lui litigò con Claudia Mori.

Erano anni in cui lei non poteva uscire di casa senza trovare appostato un paparazzo.

Se nessuno ti si fila, il mio mestiere che lo fai a fare? Venivo anche seguita, certo e avevo ovviamente i miei piccoli guai. Ma se sei un attore, lo sai, ti devi muovere con più attenzione. Se vuoi fare la scappatella devi saperti mimetizzare, altrimenti sei stupido o, nel migliore dei casi, distratto. Se ho fatto degli errori, sicuramente sono stata stupida io.

È vero che Celentano montava personalmente intere parti dei film in cui recitava?

Verissimo. Adriano pretendeva di montare senza ingerenze le sue scene di ballo. Prendeva la pizza della pellicola sottobraccio e andava direttamente al montaggio. Dovevano volerci due giorni e i due giorni, regolarmente, diventavano venti. I produttori erano disperati.

Lei ha conosciuto da vicino Dino De Laurentiis.

Dino non capiva perché non evadessi dal cinema italiano e cucinando, provava a estradarmi per mezzo dei sughetti: ‘Dovresti fare come me, lasciare l’Italia, venire in America’ e io di rimando: ‘Che ci vuoi fa’, il mio destino è questo’. Partecipare a Flash Gordon fu un’esperienza meravigliosa. Girammo a Londra, in studi pazzeschi. Foreste, gigantismo, camerini grandi come città. Dino era il primo a venire sul set e l’ultimo ad andarsene. Durante i preparativi amava sconvolgere aspetto e fisicità degli attori, a mi fece cambiare 10 parrucche. Mi andò anche bene. A Jessica Lange, prima di affidarle una parte in King Kong, fece rifare il naso.

A metà degli anni 80 un altro incontro importante: Francesco Nuti.

Porto sempre un gran peso nel cuore. Siccome credo che siamo tutti artefici del nostro destino, mi domando spesso cosa l’abbia portato a stare tanto male. Era così carino, Francesco. Così dolce. Così fragile e a volte anche così risoluto. In Tutta colpa del Paradiso, dopo aver visto i risultati dei primi giornalieri, insoddisfatto, cambiò il direttore della fotografia da un giorno all’altro.

Nel campo le hanno dato luce e immagine molti nomi di valore.

Tonino Delli Colli, uno di questi, amava fotografare i volti. I direttori della fotografia della nostra scuola non imitavano Vogue, ma mettevano in evidenza la nuda bellezza del volto. Se splendevi di tuo, non avevi necessità dell’artificio. Clara Calamai senza trucco era favolosa, ma non era una fregna. Sapete cosa mi diceva Delli Colli con saggezza popolare?

Cosa?

‘Francè, tu hai bisogno solo de mettete un pochetto de tre quarti e poi vai da sola. Guarda il dinghi dinghi e non te preoccupà’.

Il dinghi-dinghi?

Una piccola luce sopra la macchina da presa che ti illuminava direttamente gli occhi e che a Cinecittà tutti chiamavano così. All’epoca, sembra incredibile, anche gli obiettivi avevano valore. È una questione di profondità, di luce, di taglio. Se mi riprendi con un 50, per dire, con me ottieni subito l’effetto Picasso. Ferreri che lo sapeva lo aveva teorizzato: ‘Francè tu il 50 non lo devi neanche toccà. Solo il 70, l’80 o il 100’.

Oggi il cinema la cerca meno.

Girerò presto il film di due esordienti. Anche se non salto più da un set all’altro, non piango, non curo dolori e non covo rancori. Non l’ho mai fatto. Nella vita si danno e si prendono, si è feriti e inevitabilmente si finisce per ferire. Sono fatalista. Se mi hai chiuso una porta in faccia, significa che quella porta non si doveva aprire.

Presto risalirà sul palco.

Ho debuttato a teatro tre anni fa con L’ebreo di Gianni Clementi, diretta da Enrico Lamanna. Un testo impegnativo in cui interpreto una donna, prestanome e intestataria di una fortuna che non le appartiene ai tempi in cui i beni degli ebrei erano sequestrati. Ho un ruolo difficile, metto in scena una figura orrenda. Quando me lo proposero quasi mi offesi. Poi ho incontrato La Manna. Mi ha conquistato. Quando ti racconta una storia sembra viverla davvero. E in questi giorni torno a recitare per lui in Processo alla strega di Silvano Spada, uno spettacolo che avevamo già presentato l’anno scorso con successo al Festival di Todi.

Per una cena con Putin è finita sotto inchiesta.

Un teatro di Pordenone, senza che avessi neanche firmato un contratto, mi ha denunciato per non aver tenuto fede agli impegni. La verità è che non avevo voce e in scena, la sera successiva alla cena con Putin a San Pietroburgo, non sarei potuta andare comunque.

Che ci faceva a San Pietroburgo.

Con Depardieu, Monica Bellucci, Sharon Sto-ne e altri attori ero invitata a un evento di beneficenza. Non so per quale arcana ragione, Putin mi abbia voluta al suo tavolo. Io protestavo : ‘M’avete messo qui da sola’. Lui in verità è stato gentilissimo, ci ha portati all’Hermitage, ha fatto da Cicerone, abbiamo scambiato qualche parola. Ma non siamo amici, non mangiamo gli spaghetti insieme e non accetto insinuazioni. Sapete com’è, no? Me vojono sempre buttà nel letto di qualcuno.

Con i suoi figli ha un rapporto sereno?

Ho faticato a capire che erano cresciuti e non erano più soltanto i miei bambini. Hanno i loro caratteri e il carattere non è una di quelle cose su cui puoi essere in accordo o in disaccordo. Lo accetti. Punto.

Descrivono Naike come esibizionista impenitente.

Su Naike potrei aprire un capitolo lunghissimo. Per lei esprimersi è un modo di trovare se stessa. La amo. È una artista. Fa cose meravigliose. È eccessiva? Vive in un mondo eccessivo. Si mostra? Vive in un mondo in cui tutti si mostrano. È ipocrita? No. Gli altri sì. Ha 40 anni, non 15. Quando vorrà prenderà un’altra strada. L’altro giorno mi ha fotografato mentre ero piegata. Avevo una chiappa in mostra. Me la devo prendere? Quella foto era vera. Qualcuno mi stava guardando. Rappresentava un frammento di realtà.

A dire il vero ha fotografato lì anche se stessa.

Fa vedere il culo? E allora? Lo fa vedere mezzo mondo. Poi si critica mia figlia? Please... almeno lei si prende tutti i calci in faccia senza elemosinare soldi a nessuno. Il paese, lo sappiamo, è bigotto.

Si stupisce?

No, ma mi disturba un giudizio dato solo in chiave estetica. Non ci può essere una scadenza, né una condanna aprioristica per le brutte. È razzismo puro. Quella poveraccia della Merkel è stata additata per sempre. ‘Culona inchiavabile’, ma come si fa? Devono essere tutte modelle? Il Cancelliere tedesco deve somigliare a Barbie?

Perché ha aspettato 35 anni per fare il nome del padre di Naike?

Perché non ne avevo bisogno. Naike capitò, la volli tenere a ogni costo, poteva essere di chiunque perché sapevo che in fondo era soltanto mia. Il seme si trova ovunque, ricordate la Lewinsky? Lei addirittura lo congelò. Poi il problema è Naike, e annamo su, cerchiamo di essere onesti.

Lei si è sposata due volte.

Con Alessio Orano ero assolutamente innamorata e dissi sì senza dubitare. Con Federico Facchinetti anche, ma mi sposai per far felici i miei suoceri. Il sì per l’eternità mi mette sempre un po’ paura. Impegnarsi per la vita mi sembra un rischio: magari tu diventi stupido e cattivo e a me di dividere il tetto non va più. Poi nell’amore vero credo, ma non sono gelosa né possessiva. Se un uomo va a scopare altrove non mi importa. Gli uomini cambiano gusti, le donne anche. Per stare insieme deve esistere un patto più forte. Del tradimento non voglio sapere, non me ne frega niente. I don’t know, I don’t care.

Dice davvero?

Ho vissuto, amato, sofferto e sono stata felice. Recriminare o invecchiare con dubbi o acrimonia mi pare demenziale. Voglio chiudere gli occhietti serena. Dicendo ‘Ci ho provato’. In pace, con tutti.