Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano 20/7/2014, 20 luglio 2014
I NIPOTI DI MOBARAK
A leggere i giornali e a vedere i telegiornali che commentano la sentenza su Berlusconi nel processo Ruby, si direbbe che sia la prima volta che un collegio di giudici milanesi assolve l’ex Cavaliere. Si direbbe anche che la Procura s’è inventata le decine di prostitute, minorenni e non, che entravano e uscivano dalle sue varie dimore; e soprattutto le sue telefonate notturne dal vertice internazionale di Parigi al capo di gabinetto della Questura, Pietro Ostuni, perché facesse rilasciare la minorenne fermata per furto (con la quale aveva una relazione e che trascorreva diverse notti ad Arcore) nelle mani di Nicole Minetti e della collega Michelle Conceicao, contro il parere della pm Annamaria Fiorillo. E si direbbe ancora che il 30 dicembre 2012 il Pd e il Pdl non abbiano modificato, con la legge Severino comicamente detta “anticorruzione”, il reato di concussione per induzione di cui casualmente dovevano rispondere sia il leader Pdl sia Filippo Penati, braccio destro del segretario Pd Pier Luigi Bersani. Ascoltando e leggendo poi vari commentatori, fra i quali spicca il sempre più autorevole e lucido Giuliano Ferrara, si direbbe pure che la sentenza Ruby non riguardasse solo il caso Ruby (per la parte contestata a B.), ma tutte le accuse passate presenti future mosse dai magistrati non solo al Caimano, ma anche a tutti i politici e i potenti imputati di ogni specie e colore, vivi e morti, compresi quelli già condannati con sentenza definitiva, inclusi quelli di Tangentopoli. Un’assoluzione plenaria, urbi et orbi, che “chiude un’epoca”, anzi la “guerra dei vent’anni”, ragion per cui “nulla sarà più come prima”. E, sottinteso, il Padre Prostituente finalmente riabilitato e ormai lindo come giglio di campo può riformare la Costituzione repubblicana con l’inseparabile Matteo, idolo di tutti i poteri, e dunque di tutte le tv e i giornali di destra e sinistra.
Tutte queste panzane vengono dette e scritte dagli operatori della cosiddetta “informazione” con un empito mistico a metà fra il sollievo e la rivincita, che la dice lunga sull’asservimento delle classi giornalistiche e intellettuali italiote alla greppia dei poteri che, in teoria, dovrebbero controllare. C’è anche chi si pente di aver raccontato fatti veri (che la sentenza dell’altroieri non può certo negare) e si duole amaramente di aver “esagerato” nell’informare troppo i cittadini sugli scandali del Palazzo, suscitando addirittura il sospetto – in Italia e all’estero – che B. fosse un puttaniere che abusava del suo potere e, in definitiva, non sia il galantuomo a tutti ben noto. Le sentenze che documentano le amicizie mafiose, i soldi a Cosa Nostra in cambio di “protezione”, l’appartenenza alla loggia eversiva P2 e la relativa falsa testimonianza amnistiata, i 23 miliardi di lire in nero a Craxi, le sentenze e i giudici comprati tramite Previti, lo scippo della Mondadori a De Benedetti (ora suo partner in una società pubblicitaria sul web), le tangenti ai politici tramite Letta, Brancher & C., le mazzette alla Guardia di Finanza tramite Sciascia, la compravendita di De Gregorio e altri senatori, i fondi neri per migliaia di miliardi prescritti, i falsi in bilancio commessi e poi depenalizzati da lui medesimo, la corruzione del testimone Mills, la frode fiscale di 360 milioni di dollari coperta da prescrizione a parte i 7,2 milioni di euro costatigli la condanna definitiva e le conseguenti interdizione dai pubblici uffici e detenzione ai servizi sociali, tutte le leggi vergogna per farla franca, non contano. Siccome è cambiata la legge sulla concussione per induzione e Ostuni non ha avuto vantaggi indebiti dalla sua servile obbedienza, dunque “il fatto non sussiste” (più), e siccome non è provato che conoscesse la minore età di Ruby con cui faceva sesso a pagamento, dunque “il fatto non costituisce reato”, allora è condonato anche tutto il resto. Forse Ruby non è la nipote di Mubarak: ma è certo che lo sono i tre quarti dei giornalisti italiani. Cogliamo fior da fiore.
LIBERO. “La puttanata è il processo”, titola Libero e domanda: “Chi paga ora per le intercettazioni, i costi, le ragazze alla sbarra, la caduta del governo?”. “Quella che mi accingo a raccontare – scrive Maurizio Belpietro, quello dell’attentato fantasma – è la fine di un processo che non doveva iniziare”. Ogni parola, una balla. Il processo doveva iniziare perché in Italia l’azione penale è obbligatoria in presenza di notizie di reato, e qui di notizie di reato ce n’erano a bizzeffe: il giro di prostituzione, la minorenne coinvolta, l’abuso di potere di un premier che tratta la Questura come lo zerbino di casa sua, i soldi pagati a decine di testimoni che raccontano frottole. Le ragazze alla sbarra ci sono e ci restano anche dopo questa sentenza, perché mentire ai giudici è un reato, e pure pagare testimoni perché mentano. Così come restano alla sbarra Fede, Minetti e Mora per aver organizzato quel giro di escort: si chiama favoreggiamento o sfruttamento della prostituzione, che prescinde dall’età delle ragazze. Lo dicono – volete ridere? – due leggi severissime (non Severino, ma Prestigiacomo 2006 e Carfagna 2008) del governo Berlusconi. Quanto alla caduta del governo, non c’entra nulla con Ruby: sia che sia stato vittima di una congiura mondiale avviata nella primavera-estate 2011, come sostengono i berluscones, sia che sia caduto per il semplice venir meno della sua maggioranza nell’autunno, il terzo e ultimo governo B. cadde per motivi economico-finanziari e per le risse interne fra il premier e Brunetta da una parte e Tremonti dall’altra: non certo per Ruby. Anche perché il quadro emerso da quel processo è identico a quello già affiorato con i casi Noemi, D’Addario e Tarantini l’anno precedente. Strepitoso, sempre su Libero, il pezzo di tal Borgonovo sui “manettari” e “rosiconi”, “da Lerner a Travaglio”, che “avevano già emesso la sentenza per ideologia e invocavano la gogna per Silvio”. Che strano: solo l’altro giorno, quando il Fatto pubblicò l’articolo di Marco Lillo sui punti deboli della sentenza di primo grado alla luce della legge Severino sulla concussione, Libero aveva iscritto “il giornale di Travaglio” fra gli insospettabili “innocentisti”. Ora dice che siamo “scornati dall’assoluzione”. Padre, perdona loro perché non sanno mai quello che scrivono.
IL GIORNALE. Con l’autorevolezza e l’imparzialità tipiche degli impiegati dell’imputato, i giornalisti de Il Giornale vorrebbero che qualcuno “paghi” e addirittura “chieda scusa” al principale. Alessandro Sallusti ringrazia Renzi per “aver tenuto aperta la porta al condannato” (sono soddisfazioni). E scatena i suoi segugi a caccia dei “mandanti ed esecutori” del “colpo di Stato”. Non lo sfiora neppure l’idea che il mandante e l’esecutore sia B. stesso: se non si fosse riempito la casa di mignotte di cui ignorava persino il nome, la nazionalità e l’età, e se non avesse chiamato la Questura, nessuno si sarebbe sognato di processarlo. Impagabile il pezzo di Stefano Zurlo su Merkel e Sarkozy che “ridevano sulle nostre disgrazie”: duole comunicargli che i due avrebbero riso lo stesso anche senza il processo Ruby. Infatti ridevano alla domanda di un giornalista (straniero, ovviamente) sull’eventuale capacità del governo B. di portare l’Italia fuori dalla crisi, non sul bungabunga.
LA STAMPA. Mentre Massimo Gramellini ricorda giustamente che un presidente americano si sarebbe dimesso per molto meno di ciò che ha fatto B. nel caso Ruby, a prescindere dalla rilevanza penale delle sue condotte, il quotidiano della Fiat annuncia comicamente: “È finita la guerra dei vent’anni”. Dimenticando che con i giudici di Milano, diversamente che con i pm, B. si era sempre trovato benissimo, incassando raffiche di prescrizioni grazie a generosissime e seriali attenuanti generiche e alcune memorabili assoluzioni. Un gip riuscì persino a sostenere che meritava attenuanti e prescrizione per la corruzione del giudice Metta in cambio della sentenza Mondadori in virtù delle sue “attuali condizioni di vita personali e sociali”, cioè del fatto che era presidente del Consiglio, dunque illibato per definizione; dopodiché la Corte d’appello (e la Cassazione) confermarono che Previti andava rinviato a giudizio e condannato, mentre il suo mandante-finanziatore B. no. Un’altra volta il Tribunale e la Corte d’appello lo assolsero per il caso Sme-Ariosto, anche se i soldi a Previti, per il bonifico diretto al giudice Squillante di 434.404 dollari del 1991 estero su estero, li aveva girati lui. Motivo dell’assoluzione: B. è troppo furbo per corrompere un giudice via bonifico (lasciando tracce), anziché cash (senza lasciarne). E pazienza se le contabili bancarie svizzere documentavano il doppio bonifico B.-Previti-Squillante (lasciando tracce). Quale sarebbe dunque la “guerra dei vent’anni” che i giudici milanesi, quasi sempre così ben disposti con lui, avrebbero ingaggiato col Caimano? Mistero. Ma, pur di lubrificare le larghe intese, questo e altro.
REPUBBLICA. Il quotidiano che più si appassionò per la Bungabunga Story, con copertura decisamente superiore a quella riservata a vicende ben più gravi come le frodi fiscali Mediaset o il processo Dell’Utri, per non parlare della trattativa Stato-mafia, titola sulla “rivincita di Berlusconi” e relega in poche righe quella che potrebbe essere la chiave della sentenza: la modifica del reato, frutto dell’oscena legge Severino che pure Repubblica con Liana Milella e Massimo Giannini fu in prima fila a denunciare, insieme al Fatto e a pochi altri (tipo Antonio Di Pietro, che lanciò inascoltato l’allarme in Parlamento e anche per questo fu radiato dal centrosinistra: disturbava le larghe intese). Ezio Mauro scrive un editoriale esemplare, in cui ricorda l’ossessione berlusconiana di seppellire con abusi di potere, bugie e depistaggi i fatti oggetto del processo, che meglio di tutti sapeva essere veri, verissimi. Poi però sul finale, con una strana virata, anziché domandare a Renzi che ci faccia con un simile partner ricostituente con quella “storia giudiziaria complicata e pesante” sul groppone, mette in guardia B. dal “far saltare il tavolo delle riforme” con un “ricatto istituzionale per scambiare riforme costituzionali con salvacondotti privati”.
Ora, l’assoluzione sul caso Ruby assicura a B. un futuro radioso (i processi di Napoli e Bari e il Ruby ter sono ben lontani dalla dirittura d’arrivo), di assoluta libertà non appena finirà il servizio sociale a Cesano Boscone. Dunque, perché mai B. dovrebbe far saltare le riforme se non gli danno una Grazia che non gli possono dare (ha processi in corso) e che per i prossimi anni non gli serve proprio? Il problema, semmai, è come si faccia a riscrivere la Costituzione con un simile figuro, per giunta con riforme autoritarie ed eversive come il Senato dei nominati in aggiunta alla Camera dei nominati. Ciò che Mauro teme (il tavolo delle riforme che salta) e ciò che noi speriamo. E cioè che, per l’eterogenesi dei fini già verificatasi nel 1998 con l’altra riforma-porcata della Bicamerale, B. mandi tutto all’aria e salvi un’altra volta la Costituzione. A sua insaputa.
CORRIERE DELLA SERA. Dulcis in fundo, ecco Pigi Battista inerpicarsi un’altra volta nel terreno per lui proibitivo del diritto penale. E dire che lo ricordiamo nel 2011 ad Annozero in versione quasi presentabile, quando riconobbe che nel caso Ruby la Procura e i suoi soliti “teoremi” c’entravano poco: perché B. aveva fatto tutto da sé, tenendo un comportamento non consono a uno statista e abusando del suo potere con le telefonate alla Questura. Pareva addirittura in grado, il Battista, di distinguere i reati (tutti da provare) dai fatti (tutti già straprovati). E di giudicarli di conseguenza, senz’attendere il verdetto dei giudici. Niente paura: era solo un’impressione momentanea. Ieri è tornato il Battista di sempre. Prima il solito delirio su chi avrebbe “mischiato vicende giudiziarie e vicende politiche” e “fatto il tifo per una sentenza che liquidasse l’avversario”: ma chi sarebbero, costoro, di grazia? I pidini dell’era D’Alema, che tentarono di riscrivere la Costituzione con B. già 17 anni fa? O quelli dell’era Bersani che votarono la Severino salvando capra e cavoli, anzi Penati e Caimano? O quelli dell’era Renzi, che tifavano per l’assoluzione come nemmeno per la Nazionale ai Mondiali? Oppure qualche terzinternazionalista nascosto in qualche catacomba? Mistero. Ma ecco la conclusione battistiana: “Resta finalmente un dibattito politico che si libera dal peso di un incubo giudiziario: il percorso delle riforme istituzionali può procedere speditamente”. Ma certo, e a pie’ fermo. “Così come i servizi sociali a Cesano Boscone non avrebbero dovuto pesare sulle dinamiche politico-parlamentari (mettendo invece irresponsabilmente in crisi il governo Letta), anche questa sentenza può contribuire a sancire la definitiva separazione tra la storia politica e quella giudiziaria in un Paese che nella guerra totale tra politica e magistratura ha conosciuto la sua maledizione”. Ecco: la maledizione non sono i politici che rubano, frodano, mafiano; ma i giudici che li processano, anzi fanno la “guerra”. E se poi qualcuno finisce al gabbio, mi raccomando: separiamo la sua vicenda giudiziaria dal suo ruolo politico e procediamo speditamente a riscrivere la Costituzione con lui. Non solo con B. Ma, già che ci siamo, anche con Dell’Utri. E, perché no, con il suo vicino di cella nel carcere di Parma: Totò Riina. Nell’ora d’aria ha un sacco di tempo libero.
IL FOGLIO. Titolo di Giuliano Ferrara: “Eravamo tutti puttane”. Per una volta siamo completamente d’accordo con lui. Salvo su quell’eccesso di modestia: come sarebbe a dire “eravamo”?