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 2014  luglio 20 Domenica calendario

«FACEVO FELICI I RICCHI, MA OGGI MI SENTO LIBERO SOLO IN GALERA»


Mi perdoni, padre, perché ho peccato: mi stanno un po’ sulle balle i giocatori di golf, tutti, a eccezione del mio amico Marco Mascardi, 88 anni fra meno di un mese, decano della categoria. «Ego te absolvo. Anche a me, figliolo. E pensa che per penitenza ogni giugno mi tocca pure celebrare messa per loro al Montecatini golf, il campo a 18 buche che ho costruito insieme con Massimiliano Schneck, all’epoca mio socio». Difficile trovare un frate più largo di manica del cappellano del carcere di Pistoia, padre Alfredo Maria Paladini, cappuccino, che a Montecatini ci è nato, nel 1959. Almeno in materia sportiva. Un motivo c’è, anzi due. Prima d’indossare il saio, il francescano è stato fidanzato per 13 anni con una fascinosa campionessa di golf, molto più giovane di lui, tuttora attiva nei tornei internazionali. E ha lavorato a lungo come project manager per la Arnold Palmer design company di Ponte Vedra, con sede in Florida, che ha costruito i migliori campi da golf dall’Irlanda alle Bahamas, fra cui il club Castello Tolcinasco di Pieve Emanuele, nel Milanese. Quando, di ritorno dalla Cina, la vocazione sacerdotale si fece sentire, stava seguendo 40 cantieri nei cinque continenti. Era sempre circondato da donne bellissime, guadagnava «una fraccata di soldi», guidava fuoriserie a sua disposizione come fringe benefit, dormiva in hotel a cinque stelle, pasteggiava a champagne: «In quel mondo, la credibilità te la danno le auto che guidi e gli alberghi che frequenti». È stato anche l’uomo di fiducia di Piergiorgio e Vittorio Coin per lo sviluppo immobiliare di Lignano Sabbiadoro.
Con la professione perpetua, nel 2006 a Firenze, e l’ordinazione sacerdotale, nel 2008 a Montecatini, la vita di Paladini è cambiata da così a così. Adesso vive tutto solo in un convento soppresso, dove i cappuccini furono presenti dal 1680, a 100 passi dal penitenziario di Santa Caterina. Visitarlo, stringe il cuore. Sul corridoio infinito si affacciano 30 celle di clausura, che nei tempi d’oro erano occupate solo per un terzo. Su una delle porticine è incollato l’adesivo della Juve, muta testimonianza del passaggio di un frate tifoso che a quest’ora potrebbe aver cambiato squadra. In un’altra cameretta giacciono impolverate le misere cose lasciate da fra Cristoforo, morto in odore di santità.
Il monastero si rianima soltanto la domenica, alle 7.30, quando padre Alfredo Maria celebra la messa. Allora la chiesa si riempie di fedeli, incantati dalle sue omelie; parole elementari mischiate a concetti alti, talvolta irraggiungibili, come quando discetta di apocatàstasi e di pericóresi (il primo sostantivo riguarda la rigenerazione del mondo dopo la distruzione finale ed è registrato dallo Zingarelli, il secondo concerne la teologia trinitaria e non lo trovate neppure sulla Treccani). Dall’ambone la semplicità francescana di padre Alfredo Maria cede il passo alla sapienza del dottor Paladini, figlio di Rolando, imprenditore, e di Clotilde, albergatrice francofona oggi defunta che ne aveva fatto già a 10 anni un poliglotta, laureato in scienze politiche con una tesi sul diritto pubblico americano alla Cesare Alfieri di Firenze (dove ebbe per insegnanti Mario Luzi, Giovanni Spadolini, Mario Draghi, Antonio Cassese) e in giurisprudenza a Berkeley, ciò che spiega la nomina nel Consiglio della pastorale penitenziaria, che a Roma tiene i rapporti con il ministro della Giustizia.
Nel convento deserto viene ospitato qualche detenuto in semilibertà. Uno non l’hanno visto rientrare in prigione per la notte: è fuggito. «Fratello ladro», padre Alfredo Maria lo chiama così, non se n’è andato a mani vuote: «Ha rubacchiato quel che poteva. Pazienza. Ho avuto molti processi penali per questi incidenti di percorso. Nella carità non bisogna aver paura di compromettersi». Né di lasciarsi fratturare il naso da un detenuto, come gli è capitato in un incontro di boxe improvvisato dentro il carcere: «Aveva bisogno di sfogarsi, poveretto. Il match di pugilato era solo un espediente per avvicinarlo al Signore».
Mi spiega la differenza tra conventuali, frati minori e cappuccini?
«Siamo tutti francescani. Però il sindaco Giorgio La Pira diceva: “Per i conventuali è il signor Francesco”, infatti tengono i cordoni della borsa e tutte le basiliche, da Padova ad Assisi, sono gestite da loro; “per i minori, è San Francesco; per i cappuccini è Francesco”».
Voi avete solo il cordone del girovita.
«Hai notato che il mio cingolo ha uno dei tre nodi, simboleggianti povertà, castità e obbedienza, più grosso degli altri?».
È il nodo della povertà?
«No, e neppure della castità, per la quale pareggio i peccati di gioventù, quando mi gettavo sulle belle forme delle creature, come scrive Sant’Agostino nelle Confessioni. È il nodo dell’obbedienza, la prova più difficile da superare. Me lo sono fatto doppio per ricordarmelo».
Mi parli della sua vocazione.
«Non l’ho mai voluta, né cercata. Per fortuna non l’ho sentita da adolescente. Entrare in convento a quell’età è contro natura, lo dico senza paura dopo aver conosciuto tanti confratelli ai quali è accaduto magari solo perché la loro famiglia era povera. Però sin da bambino ho sempre avvertito il bisogno di pregare e ho ancora presente la luce che scorgevo negli occhi dei cappuccini del convento di Montecatini. Adesso non potrei vivere senza il Vangelo. Soffro molto quando incontro una persona che mi dice: “Padre, io non sento niente”. La considero una patologia, questa durezza di cuore».
Molto diffusa, direi endemica.
«Avevo le tasche piene di sterco del demonio, ma in me c’era qualcosa d’irrisolto. Il Signore mi ha tolto la pelle. Oggi non ho in tasca neppure un euro ma sono sereno, felice. Che grazia mi ha fatto quell’antivigilia di Natale del 1999! Tornavo da Canton. Andai a confessarmi da un frate e gli dissi che mi sarebbe piaciuto diventare come lui. Il sant’uomo, sbagliando gravemente dal punto di vista canonico, violò il sigillo sacramentale e rivelò la mia aspirazione a quello che ancor oggi è il mio superiore provinciale, padre Bonifacio, un altro santo che ogni mattina pulisce il culo a 15 confratelli malati. Il giorno dopo ero da lui. Non servirono molte parole: bastò il dono delle lacrime. Per me fu una catarsi».
Non per la sua fidanzata, suppongo.
«È una persona di grande cultura spirituale. Avrebbe voluto diventare mia moglie, ma capì subito che non poteva competere con Dio, a differenza di mia sorella che invece commentò: “Che sfiga! Proprio a te doveva capitare”. Mi lasciò libero di andare. Non s’è più sposata. Forse un giorno si farà suora».
Quali aspetti della vita precedente non sopportava?
«Tu sai che cosa diceva George Bernard Shaw, vero? Per giocare a cricket non è indispensabile essere stupidi, però aiuta. Vale anche per il golf. Si vive in funzione della pallina in ambienti che praticano il culto del metabisogno. L’unico antigolfista che ho conosciuto sul green è stato Giovannino Agnelli. Giocavamo insieme al Sestriere, da bambini, lui 5 di handicap, io 4. Era una bella persona».
Com’è la sua giornata?
«Sveglia alle 3. Liturgia delle ore, studio, scrittura. Alle 6 confesso. Alle 7 celebro messa. Alle 8.30 entro in carcere. Ci torno il pomeriggio e a qualsiasi altra ora, se serve. La sera vado per ospedali. La notte scorsa ho assistito un amico fino all’arrivo di sorella morte».
Ma quando dorme, scusi?
«Non vado mai a letto prima di mezzanotte. Sono poche tre ore di riposo, lo so. Non ho mai fatto uso di stupefacenti, pur essendo stato schiavo di altre dipendenze. Ma adesso mi drogo di eucarestia, per questo resisto».
Perché ha scelto di fare il cappellano nel carcere di Pistoia? Avrebbe potuto insegnare all’università.
«Mi ci hanno mandato. Un regalo. È il luogo dove nessuno vuol andare. Eppure Gesù disse: “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”. Ho visto persone, arrestate nel sonno dalla polizia, entrarci con addosso solo le mutande. Qualcuno che le rivesta ci vuole».
Il carcere serve?
«Il carcere è carcerogeno. L’alto tasso di recidivi dimostra che non serve. È un fallimento evangelico, sociale e costituzionale, poiché l’articolo 27 della Carta, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, vi viene calpestato ogni giorno. Ma dove abbonda il peccato, lì sovrabbonda la grazia. L’unica libertà, in galera, è la preghiera».
I detenuti pregano?
«I musulmani più dei cattolici. Io sono il cavallo di Troia che entra nelle celle per ricondurre tutti a Dio. Ci provo anche con chi reca il tatuaggio 666 dell’Anticristo sul collo. Gli dico: dammi tre ore, non ho paura del diavolo, so che esiste. Parliamo. Alla fine la resurrezione arriva. Ce n’era uno soprannominato Satana, non ti dico quanti ne aveva uccisi. Dava di matto solo a vedere la mia tonaca. Ebbe un infarto. Lo vegliai per 15 giorni in ospedale. Finì con una confessione generale, la prima della sua vita».
Che alternative propone al carcere?
«La ferita da sanare è la giustizia che non funziona, a cominciare dalla custodia cautelare. Che ci fanno dentro i 42 detenuti su 100 in attesa di giudizio, la metà dei quali saranno poi assolti? E i pazzi pericolosi che andrebbero curati negli ospedali? Mi sono visto arrivare in cella un amico accusato di aver ucciso la moglie mentre facevano a botte durante un alterco. Io penso che si sia trattato di un incidente, anche perché lei era molto più robusta di lui. È devastato: 18 anni di condanna in primo grado. Sono tanti. L’ho aiutato nominandolo scrivano e bibliotecario. Il lavoro, con la bussola del Vangelo, salva. Trovo imprenditori disposti ad assumere assassini in semilibertà. Ma bisogna sempre essere preparati agli insuccessi più atroci. Un detenuto egiziano, che avevo accolto nella casa-famiglia, dopo due giorni è scappato e ha violentato una donna».
La pena per il male commesso ci vuole.
«Chi dice di no? Infatti sono contrario ad amnistia e indulto. Ho visitato prigioni dagli Stati Uniti alla Russia, fino all’India, ed effettuato studi comparativi. Negli Usa i cosiddetti reati under the table, sotto il tavolo, come costituire società offshore, sono puniti quanto la pedofilia. Se ti becchi una condanna per evasione fiscale, sei finito, l’etichetta di furfante non te la leva più nessuno. E la pena devi scontarla fino in fondo. Però dentro penitenziari che hanno la palestra, il campo da baseball, il ring. Mike Tyson imparò a boxare in un carcere minorile».
Mai avuto paura?
«No, neppure quando alcuni detenuti hanno cercato di screditarmi con una tecnica mafiosa detta “la bicicletta”. Si mettono d’accordo in tre o quattro e inventano qualcosa per infangarti. Con me ci hanno provato perché mi ero scordato di consegnare il cellulare al posto di guardia e mi è squillato nella tonaca. È vietatissimo il telefono in carcere».
E perché ci hanno provato?
«Perché avevo rifiutato un favore a un recluso che pretendeva una certa triangolazione con il suo avvocato. Altri cappellani vengono diffamati perché non accettano di portare qualcosa di nascosto dentro il carcere».
Quanti suicidi ha visto in cella?
«Uno solo. Era un tossicomane di 28 anni, intelligente, bello, di buona famiglia. Aveva rapinato una farmacia con una pistola giocattolo. La domenica s’è confessato. Gli ho dato un libro di meditazioni sul rosario. Sapeva che l’indomani dovevo andare a Firenze. S’è impiccato il lunedì, per la vergogna arrecata ai genitori. Mi ha lasciato una lettera. È un mio insuccesso, che non mi perdono».
Cosa dice ai reclusi per confortarli?
«Che anche Gesù, San Paolo, San Giovanni e San Francesco andarono in galera, e così pure Nelson Mandela e Sandro Pertini. Stavo per finirci anch’io, durante Tangentopoli, quando volevano coinvolgermi in affari loschi».
È felice d’avere un Papa di nome Francesco?
«Felicissimo. Da umiliata per gli scandali la Chiesa s’è fatta umile. Ho avuto il privilegio di un incontro privato con il Santo Padre. Mi ha detto: “Fratello, non posso dedicarti molto tempo, fra un po’ ho la maratona”, si riferiva all’udienza generale che lo attendeva in piazza San Pietro. Invece siamo stati insieme 40 minuti. Con le sue mani stringeva i miei avambracci, senza mollarmi un attimo. Mi ha raccontato che a Buenos Aires andava sempre a trovare i carcerati e che a molti di loro telefona ancor oggi. Poi mi ha confidato un segreto: “In Argentina mi confessavo da un frate cappuccino”. E lì mi sono sentito perduto, perché mi ha dato la netta sensazione che volesse fare la stessa cosa con me. Ho avuto il coraggio di dirgli soltanto: Santità, no, io sono indegno, ne trova di migliori».


(711. Continua)