Paola Rudan, il manifesto 19/7/2014, 19 luglio 2014
IL GESTO FEMMINISTA, UNA FESSURA SULLA SOVVERSIONE
Così come è apparso, quasi inavvertitamente il gesto femminista è anche scomparso. La ricostruzione della sua genealogia – dall’iconografia sumera fino alle Vagina Warriors, dalla copertina della rivista francese «Le torchon brûlé» alle piazze europee e nordamericane – marca una distanza dal presente, che non sembra colmata dalle rare apparizioni contemporanee nei «V-days» o nelle manifestazioni spagnole in difesa dell’aborto. Le mani unite a formare una vagina stanno ormai nel passato. Per questo Il gesto femminista. La rivolta delle donne nel corpo, nel lavoro, nell’arte (a cura di Ilaria Bussoni e Raffaella Perna, DeriveApprodi, euro 20. Il volume è stato anticipato su «Alias» il 21 Giugno 2014) si può considerare un libro di storia o di memorie personali e politiche. Soltanto in parte, però. Poiché è costruito attorno a una scomparsa – la scomparsa del gesto femminista dal presente – questo libro porta a interrogarsi proprio sul presente, su che cosa resta o non può restare di quella storia e di quelle memorie.
Lo rende chiaro il dialogo tra le giovani donne della Collettiva XXX di Bologna: «ieri la vagina era segno di differenza e tratto comune… oggi farei un po’ fatica a riassumermi tutta lì… la differenza non inizia né finisce negli organi genitali». Il gesto femminista sarebbe invecchiato, legato al passato, espressione di un «determinismo biologico» cristallizzato dal femminismo degli anni Ottanta e così trasformato in qualcosa che esclude anziché lasciare spazio alle miriadi di generi, corpi, che producono confusione e avvicinamento erotico e post-pornografico, aperture al godimento. Benché questo portato escludente sia nominalmente contestualizzato («ieri» era un gesto di libertà … «oggi» è solo un’identificazione della donna col proprio sesso), giustificato alla luce della contrapposizione tra «essenzialismo» e «anti-essenzialismo» (categorie i cui limiti sono efficacemente mostrati da Raffaella Perna) la sua denuncia rivela un fraintendimento decisivo che, partendo dal presente, investe la storia del gesto femminista.
L’obiezione della donna muta
femminismo
L’ambizione del gesto femminista è stata di liberare le donne dal proprio destino biologico attraverso la presa in mano del fulcro della propria soggezione, tramutato sovversivamente in uno spazio di possibilità. Quel gesto non è stato sovversivo perché ha esposto il corpo in quanto tale, agendo sul piano dell’immagine e della cultura e così rompendo (come pure ha fatto) quel sistema di valori che costringeva il sesso delle donne all’invisibilità, all’ignoranza e alla vergogna. In quanto ha operato un taglio simbolico, esso ha indicato il luogo in cui il corpo si carica di un significato politico, in cui la differenza anatomica diventa veicolo di rapporti di potere. Non è un caso che si sia trattato di «un gesto» silenzioso, fatto con le mani, significativo proprio perché «non si sostituisce alla parola ma ne indica i limiti, riporta il corpo sulla scena del senso, ne fa uno strumento significante». Per questo, rileva Claire Fontaine, la figura politicamente più feconda che accompagna il gesto femminista è «l’obiezione della donna muta», colei che non ha le parole per esprimere il proprio desiderio. Per questo, osserva Ilaria Bussoni, quel gesto partiva «da una domanda sul cosa sia, sul come sia nelle sue differenza, più che da una risposta sull’essenza».
Si è trattato dell’apertura di un varco che «non è subito pieno perché non fa posto a un oggetto specifico, fa posto e basta». Si è trattato dell’apertura di un orizzonte di possibilità personali e politiche che si è definito a partire dalla scoperta del proprio sesso o meglio, come sottolineano Ilaria Bussoni e Federica Giardini, dalla sua «invenzione» e dalla sua «creazione», che è stata tale proprio perché il già detto non poteva contenere il dicibile. Le dita che incorniciavano quell’apertura afferravano il proprio sesso per conferirgli nuovo senso a partire dal piacere, mentre il piacere diventava a sua volta il segno di una radicale pretesa di autonomia: «il dito, il dito, orgasmo garantito!» scandiva il ritmo di questa nuova possibilità, che avrebbe preso forma nella pratica dell’autocoscienza e nelle parole di La donna clitoridea e la donna vaginale di Carla Lonzi. Forse gli uomini non hanno intercettato questa «grandiosa mossa simbolica», come ritiene Letizia Paolozzi, oppure forse l’hanno intercettata così chiaramente da avanzare la pretesa di riaffermare la propria imprescindibilità: «col cazzo, col cazzo, è tutto un altro andazzo!». Dietro alla reazione, risentita e impotente, di chi non intendeva rinunciare al proprio privilegio sessuale c’è il senso di «un mondo che crollava a partire da una fessura». C’è il segno di una lotta che era rivoluzionaria non solo perché investiva tutte e ciascuna, ma perché a partire da un taglio simbolico esprimeva un portato radicalmente polemico, l’ambizione a trasformare l’intero sistema dei rapporti sessuali e quindi sociali.
Quel taglio simbolico non ha aperto solo inedite possibilità di creazione (dal cinema, di cui – come osserva Alina Marazzi – rompeva la tradizione narrativa – all’arte e alle pratiche performative – di cui Francesca Gallo offre una rassegna), ma travolgeva l’intera politica della riproduzione, ponendo in questione a partire dal sesso l’inscindibile binomio tra patriarcato e capitalismo e la sua divisione sessuale del lavoro. Si può affermare, come fa Anna Curcio ricostruendo il percorso del femminismo marxista e, in particolare, la riflessione di Silvia Federici, che quel gesto metteva in discussione un ruolo sociale e perciò non si limitava a reclamare la specificità dell’essere donna. Oppure si può ritenere che quel gesto poteva mettere in discussione un ruolo sociale proprio perché reclamava la specificità dell’essere donna.
L’arma del corpo nudo
Ed è questa specificità che ha resistito a ogni pretesa di «comporre ciò che il capitale ha separato (e gerarchizzato) per mantenere il suo potere», di neutralizzare la differenza politica affermata dal gesto femminista con il cattivo universalismo di una «classe operaia» ripulita di ogni interna conflittualità, oppure con il nuovo umanesimo che emerge dal riferimento alla «vita» su cui si concentra Cristina Morini, una vita indistinta di cui sarebbe necessario riappropriarsi per contrastare i dispositivi del «biocapitalismo».
Il gesto femminista non è stato un gesto universale. Esso è stato preso in mano dalle donne europee e nordamericane negli anni Settanta senza diventare un patrimonio globale. Esso si è perso non soltanto nel tempo, ma anche nello spazio. È questo il limite che rilevano i due saggi che aprono il volume (quello di Laura Corradi e quello di Stefania Consigliere e Lelia Pisani), mettendo a tema il rapporto tra «femminismi egemoni e post-coloniali» a partire da storie di resistenza come le manifestazioni delle femministe indigene canadesi o le proteste delle donne del Togo e del Mali che, rispettivamente nel 2012 e nel 1991, hanno minacciato di esibire o hanno esibito i propri corpi nudi contro i regimi autoritari dei loro paesi. In nessuno di questi luoghi vediamo comparire il gesto femminista, ma è almeno lecito domandarsi se questa assenza segnali davvero, come ritengono le autrici, la pretesa del femminismo occidentale di affermare che «la nostra traiettoria di liberazione (sia) l’unica possibile e la migliore». Il corpo scoperto dalle donne maliane – che invitano i soldati a sparare sui seni che li hanno nutriti – è un corpo significativo non per via della sua anatomia, ma perché nel mostrarsi ha la pretesa di rovesciare un rapporto di potere.
D’altra parte, il loro invito a considerare la «forza della natura» contro i rischi dell’eccesso di zelo nel seguire le leggi umane evoca la mossa di Antigone, la sua potenza non meno che il suo essere contraddittoriamente presa all’interno di una hegeliana «divisione sessuale del lavoro etico». Ciò che accomuna momenti radicalmente distanti tanto nella storia quanto nello spazio non è il corpo in quanto tale, ma un investimento simbolico e quindi politico, l’apertura di uno spazio di possibilità imprevisto all’interno di un ordine di significazione dato.
Se la domanda sul presente che interroga la storia del gesto femminista è una domanda su quali discorsi e pratiche siano capaci di farsi carico delle differenti posizioni che le donne occupano in una società patriarcale e capitalista ormai globalizzata, è discutibile che la risposta possa essere il multiculturalismo. Mentre sconta senza nominarlo il senso di colpa per il privilegio della donna bianca, questa prospettiva non sovverte ma fissa le posizioni delle donne – di questo e degli altri mondi –, fino a sdoganare pratiche come la mutilazione genitale femminile in nome di «un’uguale dignità tra tutte le culture». Non sarebbe quindi questa pratica a dover essere criticata ma lo sguardo occidentale che considera vittime le donne che subiscono l’escissione della clitoride, mentre tratta il transessualismo come un gesto di libertà. Forse, invece, la posta in gioco non è tanto il riconoscimento paternalistico di un’alterità astratta e cristallizzata, ma la qualità di una domanda che interroga i rapporti di potere a partire dal corpo. Non un corpo disponibile alla modificazione performativa o chirurgica – secondo un neo-cartesianesimo queer che di fatto ripropone la scissione tra la mente e il corpo, facendo di quest’ultimo un oggetto carico di sospetto e perciò sempre modificabile a partire da una pianificazione intellettuale liberatrice – ma un corpo che, per i significati che porta e che può scompaginare, fa la differenza.
Il regime della visibilità
femminismo1
Il gesto femminista racconta appunto la storia politica del corpo delle donne e non è un caso che, come nota Bussoni, quel gesto sia l’unico a non essere stato «inglobato nello spettacolo», rimpiazzato da immagini pornografiche in cui, secondo le parole di Claire Fontaine, la vagina appare una nudità vestita di ideologia, depilata, finta, mistificata. Benché sia rappresentato nelle bellissime immagini che questo volume raccoglie (di cui parlano le fotografe Paola Agosti e Agnese De Donato), il gesto femminista non è mai un’immagine e non può essere, per questo motivo, assimilato alle molte rappresentazioni artistiche della vagina delle quali si discute dall’origine del mondo. Esso non può essere fissato, ridotto a oggetto o mercificato. Mentre il corpo delle donne e le sue rappresentazioni possono essere «presi» dai «nuovi regimi di visibilità», il gesto femminista è un simbolo, il simbolo di una sovversione che può essere domata solo se viene dimenticata. Ed è stata dimenticata non soltanto perché, come nota Silvia Bordini, ciò che quel gesto simboleggiava è stato rimosso, strumentalizzato, trasformato nell’oggetto di un recupero reazionario. Quella sovversione è stata dimenticata anche da chi fa del corpo una pagina bianca sulla quale si iscrivono i significati. Con buona pace di Foucault , il corpo sessuato, con la sua differenza, pone limiti concreti a quella possibilità di iscrizione e la determina.
La differenza neutralizzata
Il gesto femminista sta davvero nel passato, e qualunque attualizzazione nostalgica è destinata a restare fuori dal presente. Esso segnala una discontinuità radicale: il passaggio dalla politicizzazione del corpo femminile, dalla sua affermazione orgogliosa e allegra con le mani alzate nel segno della vagina, alla neutralizzazione della differenza sessuale in un proliferare di differenze tramutate in equivalenti funzionali a un godimento libertario che non s’interroga sui significati che il corpo veicola. Il gesto femminista, però, segnala anche una continuità, che non consiste nell’affermazione di un’identità basata sull’anatomia né, tantomeno, nel pacifico orizzonte di un ordine simbolico «altro», che abita immaginarie comunità di donne ripulite dal conflitto, portatrici di un’autenticità pre-storica come quella che, in fondo, la stessa Carla Lonzi (la cui esperienza come critica d’arte è ricostruita da Vanessa Martini) sembrerebbe aver ricercato nell’arte femminile o nella «spontaneità» del suo diario. Quella continuità sta piuttosto nell’obiezione che dalla donna muta passa alla donna subalterna. Lei, come ha affermato Gayatri Chakravorty Spivak, non può parlare, eppure su di lei si costituisce materialmente l’ordine globale della società. Questo silenzio può essere trasformato in un privilegio epistemologico a partire dal quale interrogare – e sovvertire – quell’ordine.
Una possibilità imprevista che non sta certo nel passato che alcune donne si sono lasciate alle spalle e altre non hanno mai vissuto, ma che può ancora aprire una cesura storica globale, prendendo in mano il taglio iscritto sui nostri corpi.