Federico Varese, La Stampa 20/7/2014, 20 luglio 2014
TUTTI GLI INCROCI PERICOLOSI TRA LA MAFIA E CHI LA RACCONTA
Alcuni rappresentanti della società che ha prodotto la serie televisiva «Gomorra» sono accusati di favoreggiamento verso il clan Gallo. La vicenda prende le mosse dalla richiesta del pizzo per l’uso di una villa. Secondo la Dda di Napoli, i produttori hanno mantenuto un «atteggiamento omertoso», informando il clan dell’indagine nei loro confronti.
Vi è costernazione e stupore tra i fan della serie ideata da Roberto Saviano, il quale per ora si è espresso con molta cautela. Tutti i diretti interessati sono ovviamente innocenti fino a prova contraria. Eppure non bisogna dimenticare che le produzioni cinematografiche, al pari di altre attività economiche, sono estremamente vulnerabili alla richiesta del pizzo, ed è una pia illusione credere che fare film sulla mafia sia sempre e comunque un modo di combattere il crimine organizzato.
I rapporti tra la mafia ed il cinema sono almeno di due tipi, come ha mostrato a suo tempo il sociologo anglo-torinese Diego Gambetta. Innanzi tutto, i film sono un prodotto culturale che può raggiungere un’audience mondiale. Non stupisce che i mafiosi siano estremamente interessati alla rappresentazione di se stessi sullo schermo. L’Fbi ha intercettato dei membri di Cosa nostra americana mentre discutono il casting de «Il Padrino», ognuno esprimendo un’opinione sull’attore da scegliere per il ruolo di Don Corleone. A maggioranza, si esprimono a favore di Paul Newman.
Quando un film sulla mafia ha un enorme successo, boss e picciotti si appropriano dei comportamenti, delle espressioni e dei modi di vestire creati dal film. Anche le colonne sonore vengono utilizzate durante feste e pranzi, come racconta l’agente dell’Fbi Jo Pistone, infiltrato nella famiglia Bonanno di New York col nome di Donnie Brasco.
Gambetta spiega che i mafiosi non possono apertamente dimostrare la loro appartenenza al mondo del crimine organizzato, ma vogliono in tutti i modi far capire al pubblico chi sono veramente. Sono perciò costretti a copiare immagini tratte dalle fiction. Le richieste estorsive saranno poi più credibili e la reputazione filmica di violenza efferata aiuta l’organizzazione. Senza dubbio la serie «Gomorra» avrà lo stesso effetto nel contesto campano.
Gli appassionati di semiotica filmica rischiano di dimenticare che produrre cinema è anche un’attività economica molto simile all’edilizia. Come un cantiere, un set cinematografico è fisso e spesso all’aria aperta, e quindi facilmente individuabile. I tempi di produzione sono strettissimi e il minimo ritardo può costare caro. Vi sono poi anche altri rischi per tutta la troupe, come ha capito benissimo il produttore di «Gomorra»,che sembra aver detto: «Che faccio? Metto a rischio 70 persone? Cioè qui non si parla di gente normale, eh!».
La richiesta del pizzo a «Gomorra» è solo l’ultimo episodio di una lunga lista. Ad esempio, due mafiosi di Palermo hanno testimoniato che la produzione del film di Roberta Torre, «Tano da morire» (1997) pagò 30 milioni di lire al boss del quartiere della Vucciria (regista e produttori hanno sempre negato e non sono mai stati indagati). Ovviamente c’è chi si ribella: quando nel 1971 Coppola fu sottoposto e richieste estorsive per le scene che voleva girare in Sicilia, spostò la troupe a Savoca, un paesino arroccato su un colle nella provincia di Messina, il quale ora è entrato nella storia del cinema: il matrimonio di Michael Corleone e il colloquio al bar Vitelli con il padre della sposa sono stati girati lì.
Certo cambiare location è costoso e può far sballare i conti. Tristemente, alcuni produttori, come gli imprenditori dell’edilizia processati in Lombardia per aver accettato le richieste della ’ndrangheta, non sembrano percepire il costo sociale del monopolio mafioso sulla vita civile ed economica.
Vi è poi un terzo tipo di interazione tra mafia e cinema, molto comune in Asia: la simbiosi. Il gruppo mafioso acquista la casa di produzione - attraverso cui ricicla il denaro -, impone i propri contenuti sulle opere, e i picciotti diventano gli agenti degli attori.
Ad esempio, molte fonti sostengono che la Yakuza giapponese a suo tempo comprò una della cinque maggiori case di produzione del paese, la Toei, specializzata appunto in film di gangster. Addirittura, Ando Noburu, un ex membro, divenne uno dei loro attori di punta. «Nella lingua giapponese, la differenza tra yakuza and yakusha (attore) è un solo carattere», ebbe a dire in un’intervista.
Il grande regista Kinji Fukasaku, autore tra l’altro di «Lotta senza codice d’onore» (1973), racconta come i boss volessero vedere in anteprima i film prodotti dalla Toei, che organizzava per loro delle visioni private. In un caso che lo riguardava, «il capo arrivò e si guardò tutto il film», raccontò anni dopo Fukasaku in un’intervista. Il film passò il test, ma l’esperienza per il regista fu «piuttosto inquietante».
Dopo l’arrivo dei veri yakuza, il pubblico smise di apprezzare i film prodotti dalla Toei poiché le storie erano diventate troppo edificanti. Si dovette aspettare i registi indipendenti negli Anni Novanta perché questo genere cinematografico rinascesse in Giappone.
Allo stesso modo, chi ha visto il film «I Grimaldi», una agiografia del boss di Cosa nostra Michele Greco, mi assicura che è altrettanto soporifero. Il regista è il figlio di Michele Greco. Quando la mafia si mette dietro la macchina da presa commette sempre dei crimini artistici. Quando invece si limita a chiedere il pizzo trova – a volte – registi e produttori disposti a vendere l’anima.