Maurizio Molinari, La Stampa 20/7/2014, 20 luglio 2014
NEL FORTINO DI HAMAS “NOI, TRADITI DALL’EGITTO FERMEREMO ISRAELE”
Dentro una redazione senza insegne, nell’aula di un ateneo deserto, nel cortile del maggiore ospedale e nelle affollate stradine del mercato vicino alla moschea bianca: sono i luoghi dove bisogna andare per tastare il polso a Hamas, determinata a rifiutare ogni ipotesi di cessate il fuoco che non preveda la fine del blocco israeliano alla Striscia, iniziato nel 2007.
I personaggi con cui parliamo sono fra le poche voci di Hamas in circolazione, visto che gran parte di leader, vice e comandanti, è alla macchia. La redazione di «Al-Risala», voce ufficiale di Hamas, è in un ufficio senza insegne di un palazzo anonimo, dove in una stanza spoglia, solo davanti al laptop lavora Ibrahim Al-Madhoun, 36 anni. È lui che scrive ciò che Hamas fa e pensa sul giornale più letto dai suoi leader, miliziani e sostenitori. «Combattiamo questo conflitto per porre fine al blocco israeliano contro la Striscia» esordisce, spiegando che «le richieste da noi fatte per il cessate il fuoco» includono: «Apertura delle frontiere, diritti di pesca e di commercio, accesso ai luoghi santi dell’Islam, corridoio con la West Bank e possibilità di trasferire all’estero i malati».
Da qui l’errore dell’Egitto che, spiega il docente di Scienze Politiche Hani Al-Basous ricevendoci in un ateneo-fantasma, «anziché sostenere Hamas a porre fine al blocco, ha sposato la tesi degli israeliani, e degli americani, di interrompere subito le ostilità rimandando a dopo il negoziato su tutto». Si tratta, concordano Al-Mahdoun e Al-Basous, di «un tradimento egiziano nei confronti dei palestinesi motivato dall’avversione per Hamas di un presidente come Al Sisi, illegittimo per come ha rovesciato Mohammed Morsi».
Hassan Khalaf, direttore dei servizi sanitari all’Ospedale Shifa, aggiunge: «Hamas sfida un poderoso blocco di Paesi, guidato da Egitto, Israele e Arabia Saudita, che vogliono la nostra resa ma non la avranno». Fra i «traditori» di cui parlano gli uomini di Hamas c’è Abu Mazen, il presidente palestinese. «Ha sposato l’impostazione egiziana schierandosi contro la resistenza - osserva Al-Mahdoun - perché non ha interesse a un successo di Hamas, oltre al fatto di essere titolare, assieme al figlio, di importanti giri d’affari nella regione motivo per cui è esposto al ricatto di Egitto e Israele». Hamas guarda a Qatar e Turchia con maggiore fiducia ma c’è la diffusa percezione che «sono troppo lontani» come dice Al-Mahdoun, spiegando che «per porre fine al blocco bisogna riaprire Rafah che è in mani egiziane» e dunque, in ultima istanza, Il Cairo è decisivo. «L’unica vera alternativa sarebbe - sottolinea Al-Basous - una mediazione Ue, Usa o della Russia».
Sebbene isolata dai Paesi arabi e alle prese con l’operazione di terra israeliana, Hamas resta convinta di poter prevalere. Sami Abu Zohri, portavoce del leader politico Ismail Haniyeh, lo dice così: «L’invasione israeliana è un bluff ai fini della loro opinione pubblica, sono entrati nella Striscia solo per pochi metri, sappiamo difenderci, abbiamo armi sofisticate e possiamo batterci a lungo». Ehab Al-Ghussain, già volto pubblico del governo di Hamas, concorda: «Macché invasione, gli israeliani hanno paura di avanzare». E sugli attacchi con i razzi contro le città israeliane Abu Zhori afferma: «Non avete visto che abbiamo fatto pochi morti? Altro che Iron Dome, il merito è nostro, vogliamo usare i lanci solo per spingere il nemico a trattare».
A spiegare cosa c’è dietro tanta sicurezza sugli aspetti militari è Al-Madhoun: «La forza di Hamas è dimostrata dall’esito della campagna aerea israeliana, hanno tentato senza successo di eliminare leader, comandi e soldati delle Brigate» e il motivo è che «nella Striscia vi sono tunnel offensivi e difensivi, questi ultimi creati per resistere a lungo e dotati di un sistema di comunicazioni efficienti che gli israeliani non riescono a penetrare». Hamas ha studiato a fondo il modo di combattere di Israele, nei conflitti del 2008 e del 2012, arrivando alla conclusione che «a fare la differenza è la qualità umana dei combattenti». Da qui l’attenzione per «disciplina, ideali e motivazione religiosa» che porta, concordano Al-Mahdoun e Al-Basous, a «selezionare gli uomini» scegliendo chi «sa resistere al fumo e non si fa tradire dalle tecnologie».
Sono tali «qualità combattenti» che hanno consentito a Mohammed Deif, capo delle Brigate Qassem, di realizzare una «produzione domestica di armi» rendendo Gaza capace di combattere solo grazie alle proprie forze. L’imponente monumento al razzo M-75 nel cuore della città rivela tale dimensione strategica: inaugurato per ricordare l’uccisione da parte degli israeliani di Ahmad Jabari, che gestì la sorte del caporale Gilad Shalit sequestrato per cinque anni, esprime l’orgoglio per essere riusciti a confezionare in fabbriche segrete armi in grado di colpire tutte le maggiori città israeliane. È lo stesso orgoglio che nel mercato coperto a fianco della moschea bianca porta i venditori a gioire quando arriva la notizia di un israeliano ucciso dai Qassam su Dimona. Ciò che accomuna il mondo di Hamas è un diffuso senso di fierezza per aver creato un nuovo modello di società palestinese: più granitica, religiosa e agguerrita della Cisgiordania. Si spiega così anche l’equilibrio fra le tre ali: politica, educativa e militare. Khaled Meshaal è il leader indiscusso delle prime due, anche se Haniyeh continua ad avere seguito a Gaza, perché «su politica ed educazione Hamas non ha fratture» mentre è sul piano militare che, conclude Al-Mahdoun, «la Striscia fa da sé». Visto che Mohammed Deif non accetta intromissioni.