Lucia Sgueglia, La Stampa 20/7/2014, 20 luglio 2014
NEL CAMPO MALEDETTO DI GRABOVO SCIACALLI, MILIZIANI E SACCHI NERI
Morire di luglio, in un placido campo di granoturco, tra le spighe già mature, e il rimbombo dell’artiglieria tutt’intorno. Nella valigia un cappello rosso a falde, e una maglietta col logo «I love Amsterdam». Più oltre, l’orrore che non si può dire.
Appena scendi a Torez, cittadina sperduta di 80 mila anime addossata al confine russo nel Far East ucraino, alla stazione dei bus i tassisti capiscono subito.
«Vuoi vedere il campo, vero?», chiedono, il luogo dello schianto del Boeing della Malaysia Airlines. Di fronte, sul Comune, inequivocabile, sventola la bandiera dei separatisti. Al campo si arriva in mezz’ora in auto per campagne quasi deserte, facendo la gimkana tra stradine di fango e carreggiate martoriate dai cingoli dei tank di Kiev. Ogni tanto passa un autobus come un fantasma, o un camion carico di carbone. Indietro, ci sono i posti di blocco ucraini, i soldati di Kiev appostati dietro gli alberi in piedi sugli Ural con la mitragliatrice puntata. «Sparano anche con i cannoni. E li senti i Grad? Quel tuono doppio in lontananza, saranno a 15 km. E tirano anche coi “Voronki” da laggiù, dietro quei filari in cima alla collina», dice Alexei, tassista, fermandosi a raccogliere un elmetto militare caduto in strada, come un souvenir. «È una tragedia nella tragedia», ripete come in trance. Pare ci siano anche alcune mine nella zona, nascoste nei sentieri tra i campi, «una donna e un ragazzo ci sono saltati su, ora stanno all’ospedale».
I check point dei ribelli
Davanti, all’imbocco del villaggio Metallist, distretto Minatori, i ribelli: «Qui comincia la Novorossija», si legge sulle barricate al primo checkpoint. E forse qui, dopo la tragedia del Boeing 777, può finire. Ribelli in canottiera nera e gilet antiproiettile, bandana in testa, occhiali scuri, e guanti da motociclisti. Alla fermata dell’autobus due scritte, rossa e blu: «Gloria al Donbass!» e «DNR merda».
Il rottame
Ed eccolo. Ai margini di una fabbrica sovietica di polli da batteria chiusa da anni, un gruppo di giovani dall’aria annoiata seduti su vecchie motociclette sovietiche che qui usano in tanti, controlla i documenti al passaggio: «Siamo “volontari” della Dnr». Poi una fila di auto, e in fondo, a sbarrare la via, un vecchio autobus bianco, circondato di miliziani con le ormai famose maschere nere, grossi, coi kalashnikov, poco amichevoli. All’improvviso in fila arrivano anche una quindicina di Berkut, le famigerate teste di cuoio dell’ex presidente Yanukovich che hanno fatto strage di manifestanti a Maidan, anche loro a volto coperto. Per i filorussi sono «eroi». Fanno base a Torez, ma gli ordini, è chiaro, gli arrivano da Donetsk.
Il tour dell’orrore
Gli Osservatori Osce, una decina, aspettano ansiosi e intimiditi: per la prima volta hanno avuto il permesso di entrare nel sito. «Chiederemo di risolvere la questione delle scatole nere, e vogliamo che vengano qui esperti internazionali», annuncia il capo missione, Alexander Hug. Ma dopo un’oretta vengono accompagnati all’uscita. Vania, che oggi pare il capo in carica della truppa ribelle, è netto: «Non avete il permesso di inoltrarvi nel campo». Kiev accusa: i filorussi starebbero facendo di tutto per ostacolare le indagini, cercando di distruggere, «con il sostegno della Russia, le prove del loro crimine internazionale», trasportando i resti dell’aereo in Russia e portando i corpi delle vittime all’obitorio di Donetsk. I ribelli negano: è Kiev a «sabotare le indagini». Ma il governo dell’Ucraina denuncia anche episodi di sciacallaggio nell’area del disastro, facilitati dal fatto che molti bagagli sono rimasti intatti. I separatisti li attribuiscono a civili ucraini, che avrebbero persino usato carte di credito depredate sul posto. Sia come sia, i militari di Kiev piazzati nella zona non sembrano ansiosi di impadronirsi del luogo del disastro.
Subito dietro l’autobus, la scena è da girone infernale. I cadaveri delle 298 vittime giacciono ancora tutti lì, all’aria sotto il sole cocente, alcuni avvolti in bodybags nere distese lungo il ciglio della sterrata che taglia il campo, altri ancora tra i rottami, alcuni ustionati, gonfi e contorti, mezzi nudi, sembrano manichini. E cominciano a decomporsi, l’odore di putrefazione è già intenso. Alcuni sacchi sono semiaperti, si intravedono i corpicini di bambini. Il gruppo Osce si copre la bocca con mascherine, alcuni girano lo sguardo. «Le celle frigorifere non sono ancora arrivate», si difende imbarazzato un giovane miliziano che parla inglese col cappuccio da no global chiuso da una retina anti-mosche, «le aspettiamo da Donetsk».
Gli spari in lontananza
A metà pomeriggio, a cerchio da tutti i punti cardinali, di nuovo risuona l’artiglieria leggera. Come un secondo abbraccio di morte per i 300. «Finora abbiamo recuperato circa 190 corpi» spiega Alexei Migrin, vice capo della direzione provinciale MNS, la protezione civile ucraina: sulla divisa c’è scritto «soccorritori» in ucraino, Riativalnik, ma a mandarli qui, dice, «è stata la Repubblica Popolare di Donetsk. Russi o ucraini? Non lo sappiamo neanche noi», e lesina parole. Lo spazio di ricerca copre 34 chilometri quadrati, «un territorio molto vasto». C’è anche un medico psicologo. «Ieri abbiamo trovato una bambina, di circa due anni. Era tutta intera, sembrava dormisse, era come un fiorellino nel campo. È durissimo lavorare qui psicologicamente». Il loro compito precisa, è cercare i cadaveri. Loro li portano via». Chi? Sul posto sono presenti anche «esperti militari», gente dalla Procura di Donetsk, un medico forense. Ma rifiutano di presentarsi: «Ognuno fa il suo lavoro qui, loro il loro, noi il nostro». Un uomo in maglietta blu suda: «Certo che sono ucraino!» grida scacciandoci. I corpi, a suo dire, saranno trasferiti alla morgue a Donetsk. Dal campo, nascosti dalle spighe che gli arrivano a mezza coscia, spuntano come alberi miliziani e Berkut: armati a fare la guardia ai cadaveri, o a quel che resta di loro.
Il villaggio «miracolato»
Al limitare del campo c’è un villaggio, meno di 20 case in legno tra recinti di galline. Ivan Mitishenko, minatore in pensione, dopo la visita dell’Osce socchiude il cancello come a voler fermare l’odore insopportabile. Qui tutti hanno visto tutto. La forza dell’esplosione, dice, «è stata così grande che sono stato sbalzato in aria». Un pezzo di carlinga gli è caduto in mezzo al cortile. «L’ho fatto portare via e spostare nel campo, puzzava forte, non si poteva respirare. Mi chiedete cosa è successo? Lo vedete da voi. E nessuno sa chi è stato, quale parte sia colpevole». Il giorno prima della tragedia, il parroco della vicina chiesetta che ha 220 anni aveva benedetto tutto il villaggio: «Forse per questo ci siamo salvati», dicono. Abituati ad aver paura a Hrabovo: «Qui gli aerei volano di continuo, e sparano di continuo, e noi tremiamo: dov’è la tregua?». Elena Brachenka, studentessa di 20 anni, passeggia tra i rottami dove i vicini han posato peluche e fiori: «Mia nonna è ancora in preda all’isteria, l’aereo è volato sopra casa nostra, poi girandosi è caduto a trottola, laggiù». Per lei ad abbatterlo «è stata la Guardia Nazionale» ucraina: «Una provocazione, per scatenare l’intervento della Nato». Ma qui non molti appoggiano la DNR. A bordo di un bus di linea arriva un gruppo di uomini dal villaggio, macilenti e mal vestiti: «Siamo volontari, diciamo così…venuti a dare una mano». Anche volendo, per l’Armata Brancaleone dei ribelli, i soccorsi sembrano davvero un compito troppo grande, impossibile.