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 2014  luglio 20 Domenica calendario

TROPPI RINVII SUL VERO 
PROBLEMA


La mia sensazione è che la politica, tutta la politica, non si renda minimamente conto di quanto stia peggiorando la situazione economico-sociale dell’Italia. E proprio perché non se ne rende conto, continua a trastullarsi con un’infinità di dibattiti e manovre di palazzo, leggi e leggine, super-riforme e riformette, tutte di per sé importanti e degne di attenzione, ma accomunate da un unico elemento: di non andare al nucleo del problema italiano, rimandando ogni volta al futuro le scelte che contano. Dove per scelte che contano intendo due cose ben precise: scelte che incidono sul vero problema dell’Italia, e che possano dare risultati da subito, non fra qualche anno o decennio.
Qual è il vero problema dell’Italia?
Non è da persone raffinate dare una risposta secca a una domanda del genere, ma sfortunatamente in questo caso c’è una sola risposta, ed è più secca che mai: il vero problema dell’Italia è (anzi, è diventato) il suo bassissimo tasso di occupazione. Se come termine di paragone prendiamo i 18 Paesi a noi più comparabili, e cioè i Paesi europei avanzati (Ocse) che già negli Anni 50 erano economie di mercato, ebbene l’Italia non solo occupa il posto più basso in graduatoria, ma lo occupa dopo essere stato un Paese normalissimo, perfettamente allineato alla media degli altri Paesi europei.
Il nostro attuale mortificante tasso di occupazione, in altre parole, è eccezionale non solo rispetto a quello degli altri Paesi, ma lo è anche rispetto al nostro passato. L’Italia è diventata un Paese in cui una minoranza di occupati lavora tantissime ore all’anno, spesso con due occupazioni, mentre il resto della popolazione non lavora affatto. E, giusto per dare un’idea degli ordini di grandezza, possiamo aggiungere una semplice stima: se dovessimo allinearci ai tassi di occupazione dei Paesi «migliori» (Norvegia e Svizzera) dovremmo creare 12 milioni di nuovi posti di lavoro, passando da 22 a 34 milioni di occupati, e se anche solo ci accontentassimo di adeguarci alla media dei 18 Paesi a noi più simili, di posti di lavoro nuovi dovremmo crearne almeno 6 (altroché il milione di posti di lavoro promessi da Berlusconi nel «Contratto con gli italiani»).
Ma perché questo è il problema dei problemi?
La ragione è molto semplice. Il tasso di occupazione di un Paese esercita un enorme impatto sui due parametri fondamentali con cui siamo soliti giudicarlo e apprezzarlo: il suo livello di benessere e il suo grado di eguaglianza. O, più prosaicamente: l’ampiezza della torta del reddito nazionale, e l’equilibrio con cui è suddivisa. Due parametri che, sia detto per inciso, sono le stelle polari della destra (da sempre preoccupata innanzitutto di aumentare le dimensioni della torta) e della sinistra (da sempre preoccupata che le fette non siano troppo diseguali).
Ma c’è anche una seconda ragione, più concreta e immediatamente comprensibile, per cui quello dell’occupazione è il problema italiano, ed è che un tasso di occupazione così basso crea una nuova frattura sociale, quella fra quanti un’occupazione ce l’hanno e quanti sono sostanzialmente esclusi dal mercato del lavoro, ossia i giovani e, in misura ancora maggiore, le donne adulte. Una frattura che va ad aggiungersi a quella fra garantiti e non garantiti, che da decenni è una delle piaghe del nostro mercato del lavoro. 
Se questo è il nocciolo del problema italiano, può stupire che la politica così poco se ne curi, e quando se ne cura lo faccia nel verso sbagliato, ad esempio preoccupandosi più dei garantiti che dei non garantiti, più degli inclusi che degli esclusi (vedi il bonus da 80 euro, mirato su chi un posto di lavoro già ce l’ha). Ma non dobbiamo stupircene più di tanto. La timidezza della politica ha, a sua volta, alcune precise ragioni.
La prima è che le uniche azioni che potrebbero produrre dei risultati in tempi rapidi sono considerate politicamente scorrette. Il tasso di occupazione, infatti, dipende in modo cruciale dalla flessibilità del mercato del lavoro e dalla ricostituzione di margini di profitto delle imprese, due assoluti tabù del dibattito italiano degli ultimi anni. Tabù la cui forza si può apprezzare pienamente se si riflette sul fatto che né la Confindustria né Rete imprese (l’associazione delle imprese minori) hanno condotto una vera battaglia politica affinché i 10 miliardi di alleggerimento fiscale fossero messi a riduzione dell’Irap anziché dell’Irpef, una misura che avrebbe dato una mano a non garantiti ed esclusi. Non solo, ma lo stesso presidente degli industriali ha più volte plaudito al bonus degli 80 euro, come se mai si fosse accorto di quante imprese abbiano dovuto licenziare, e spesso chiudere, proprio perché i loro margini erano scesi a livelli insostenibili.
Il fatto è che, oggi in Italia, fra sindacati, industriali e politici vige una sorta di non dichiarato e irremovibile «consenso keynesiano». La credenza, cioè, che i problemi dell’economia italiana si possano affrontare solo con misure di sostegno della domanda interna, il che – in soldoni – significa sempre la stessa, solita, vecchia ricetta che ci ha portato al disastro: fare ancora più debito pubblico confidando nella benevolenza dell’Europa e nella misericordia dei mercati.
Ecco perché un premier come Renzi non ha avuto alcun problema a dare la precedenza alla legge elettorale e alle riforme istituzionali (che produrranno i loro effetti, non necessariamente positivi, fra anni e anni), e a far scivolare sempre più avanti nel tempo il Jobs Act, da subito sottratto alla competenza degli esperti e ormai affidato ai riti (e ai tempi) della politica politicante. 
E tuttavia, a discolpa del premier e dei suoi, va anche detta la verità più amara e politicamente scorretta di tutte: la colpa è anche nostra. Se dei problemi del lavoro non si parla, o meglio si accetta serenamente di parlarne e basta, senza affrontarli concretamente, è perché l’Italia non è ancora pronta. Non è ancora «cotta a puntino», mi verrebbe da dire. Nonostante il numero dei poveri sia raddoppiato in questi anni di crisi, nonostante i giovani stentino a trovare un lavoro e le donne adulte manco lo cerchino, nonostante i mass media da anni dipingano un quadro della situazione drammatico, la percezione del dramma stenta a farsi largo nelle menti della maggior parte di noi. Ci piace piangerci addosso, ma non crediamo veramente di star così male come ci raccontano i servizi dei talk show. Dopotutto, specie nel Centro-Nord, la percezione dell’italiano medio è che i drammi che vede in televisione siano drammi degli altri, e che lui, tutto sommato, non se la passa poi così male. In fondo le spiagge sono piene, e i ristoranti pure, quasi come ai tempi in cui era Berlusconi che lo andava dicendo. Quanto ai giovani, la domanda non è solo come mai non trovano lavoro, ma come diavolo possono permettersi di non cercarlo.
La realtà, temo, è che questi due racconti dell’Italia sono entrambi veri. Siamo precipitati così in basso, siamo così mal messi rispetto agli altri Paesi, che dovremmo preoccuparcene, e cercare in tutti i modi di risalire, se non altro per proteggere il futuro dei nostri figli e nipoti. Ma se oggi una reazione, una «marcia dei 40 mila» (o meglio dei 6 milioni) di giovani e donne è impensabile, è perché il benessere raggiunto alla fine del XX secolo e la ricchezza accumulata dalle due generazioni precedenti erano così elevati che oggi ne beneficiamo ancora, e proprio per questo non siamo pronti ad una reazione. Stiamo cadendo, ma siamo partiti da così in alto che non intravediamo il suolo. I margini per pensare che tutto sommato ce la caviamo ancora bene, che le cose si raddrizzeranno, che – insomma – si tratta solo di passare la nottata della crisi, quei margini di autoconsolazione o speranza sono ancora intatti. Non avere un lavoro è brutto, ma vivere dei redditi dei padri, dei mariti o dei nonni è comunque meglio che fare la fame (detto per inciso: vorrà dire qualcosa che l’occupazione autonoma fra gli immigrati aumenta, mentre fra gli italiani precipita?).
Ecco perché, per vedere una reazione, penso che dovranno passare ancora alcuni anni. E in questi anni la politica avrà agio e modo di occuparsi d’altro, come, con il nostro distratto consenso, sta facendo da sempre.