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 2014  luglio 20 Domenica calendario

INTERVISTA A CLAUDIA CARDINALE


Le facoltà meno palesi di una grande attrice sono la timidezza, la solitudine, il corpo che impietosamente muta e malgrado ciò continua a mantenere un senso di mistero. Guardando una grande attrice ci sentiamo solidali con l’immagine che ha donato con i suoi tanti film. Alcuni li abbiamo amati. Altri dimenticati. Ma è come se attraverso di essi non solo scopriamo la sua metamorfosi, ma altresì una parte della nostra storia, del nostro gusto, dei nostri più o meno remoti desideri. È il cinema. Con la sua potenza immaginativa. E la latente comunanza che avvertiamo ci colma di stupefazione. «Non mi sono mai pensata nei termini della grande attrice. Provo disagio di fronte all’immagine di un me altisonante. Non ho mai pensato di diventare come Greta Garbo o Marlene Dietrich. Trovo che recitare sia ancora il più umile e gratificante dei mestieri. Ho fatto 141 film. Ogni volta è stato come scendere dentro il me, nell’oscuro di quel piccolo mondo interiore che svelato equivale a una nascita. Quante volte sono nata nella mia vita?». Mentre si accende la prima sigaretta Claudia Cardinale lascia cadere l’interrogativo come fosse una carta dei tarocchi gettata sul tavolo: «Non sono superstiziosa, mi piace giocare con i segni zodiacali, sono un ariete dopotutto, ma alla fine penso che il destino è
solo nelle nostre mani».
Non ha mai avuto la sensazione di perderlo?
«Quando si è in crisi può accadere di pensare che il controllo sulle cose venga meno. È sconcertante apprendere in quei momenti quanto si possa essere deboli o fragili. Ma dopotutto sono stata una donna fortunata che ha guidato bene il suo destino. E penso che non valga la pena prendersi il disturbo di tormentarsi con domande che non hanno via di uscita. Mi sono sempre data una regola elementare: Claudia, vivi non come se fosse l’ultimo giorno della tua vita, ma il primo».
Ogni volta la prima volta?
«Per chi fa il cinema è spesso così. Se non avessi questa passione, il bisogno di meravigliarmi davanti a ciò che faccio, difficilmente avrei retto a lungo. E mi pare tanto più sorprendente quanto più penso ai miei esordi, che furono del tutto casuali».
Non era tra quelle ragazzette determinate a farsi strada?
«Avevo 16 anni, vivevo a Tunisi, dove sono nata. Due registi mi videro davanti alla scuola. Cercavano un’adolescente per una piccola parte. Convinsero mio padre, nonostante le mie resistenze. E così debuttai nel ruolo di un’araba tutta velata».
Le piacque?
«Non lo so. Provavo un senso di insofferenza. Poi accadde che nell’ultima inquadratura un colpo di vento
mi strappò il velo. Si realizzò un primo piano incredibile che fece la gioia del regista. Mi propose una nuova parte in un film che aveva come protagonista Omar Sharif».
E lei accettò?
«Controvoglia. Da un lato era un mondo che mi incuriosiva, dall’altro mi annoiava. Pensavo al set come a una gabbia».
Sharif com’era?
«Bello, con occhi dolci e ironici. In seguito diventammo amici. Aveva il demone del gioco. Se lo chiamavo era spesso seduto al tavolo di qualche casinò a tentare la fortuna ».
A proposito di bellezza era consapevole della sua?
«Per niente. Pensavo di essere brutta. Poi accadde che vinsi un concorso di miss e come premio c’era un viaggio a Venezia. Fui invitata alla mostra del cinema, dove una delle sezioni era dedicata al cinema tunisino. Cominciò, inaspettatamente, l’assedio di fotografi e produttori. Tutti volevano che facessi cinema. Non resistetti e tornai con il primo aereo a Tunisi. Avevo 18 anni ».
Scoprì il lato peggiore del cinema.
«Come in tutte le cose c’è un lato meno amabile. Molta gente, che aveva cominciato a girare intorno alla mia famiglia, provava a convincere mio padre che il cinema era una gran bella strada da percorrere. E alla fine papà mi fece vedere la tante lettere e telegrammi che mi riguardavano. Timidamente mi disse: forse varrebbe la pena tentare. Fu così che giunsi a Roma ed entrai al centro sperimentale di cinematografia».
Dove viveva a Roma?
«Da una zia che abitava fuori città. Prendevo l’autobus per tornare a casa. Mi avvertirono del rischio della “mano morta”. Io dissi cos’è questa “mano morta”? E la zia ridendo: lo capirai subito quando sentirai uno che furtivamente ti palpeggia il didietro».
E accadde?
«Ahimè sì. Mi girai furente verso un signore che scappò via».
Di che anni parliamo?
«Era il 1956. Dopo l’esperienza del “Centro” tornai a Tunisi decisa nuovamente a mollare tutto. Insomma ce ne ho messo prima di convincermi che quello sarebbe stato il mio mondo».
Il suo primo film vero, o meglio importante, fu una parte nei Soliti ignoti. Cosa ricorda di quell’esordio?
«Era il 1958 e quello fu l’inizio della commedia all’italiana. Nel film facevo il filo con Renato Salvadori che fingeva di essere mio fratello: “Sono Michele, dimenticai le chiavi”. E io, virtuosa, gli sbattei la porta in faccia. Lo feci con una tale violenza che Renato si ferì a un occhio. Monicelli, finita la scena, mi urlò: “Claudia nel cinema si fa finta. Ricordatelo, niente è vero pur essendo tutto vero!”»
Che ricordo ha di Monicelli?
«Un uomo all’apparenza burbero. Penso a lui con in-
finita gratitudine. Un paio di anni prima che morisse ci vedemmo a Parigi per un omaggio che il cinema francese gli riservò. Salì sul palco, ero in prima fila. E quando mi notò disse: “ Vedete quella ragazza, Claudia, lei ha cominciato con me”. Fu emozionante. Pur nella diversità mi ricordava
in alcuni tratti
Pietro Germi».
Altro regista insolito.
«Bravissimo e sottovalutato. Era chiuso, introverso come me. Bastava guardarsi negli occhi per capirsi».
Non dà l’idea di essere introversa.
«Non amo la folla. Mi piace stare per conto mio».
Il successo non la coinvolge?
«Faccio di tutto per non esserne travolta».
L’apice fu raggiunto nel 1963 quando girò contemporaneamente Il Gattopardo e Otto 1/ 2.
«Dovevo dividermi tra due “mostri” governati da pulsioni opposte. Con Luchino sembrava di stare a teatro. Con Federico il set era una specie di happening. Tutto avveniva sotto il segno dell’improvvisazione».
Con chi si è trovata meglio?
«Visconti era maniaco dei dettagli. Qualunque cosa doveva essere perfetta. Fellini non aveva copione. Andava spesso a braccio. Con Luchino diventammo amici. Si vedeva il festival di Sanremo, si andava a teatro. Mi sentivo adottata. Facemmo insieme l’ultimo viaggio a Londra, per un concerto di Marlene Dietrich. Scoprii che erano amici. E fu una sorpresa. Quando si videro a cena lei scoppiò a piangere».
E lui?
«Si divertì a consolarla. Sapeva intuire la parte nascosta delle persone. Cosa che gli tornava utile nella preparazione di un film. Ricordo che quando arrivò Burt Lancaster sul set del Gattopardo, Alain Delon guardandolo disse: “Ma come, scelgono un cowboy per fare
la parte del principe?” E invece fu straordinario. Povero Alain».
Eravate amici?
«Lo siamo tuttora. Profondamente. Ha avuto qualche vicissitudine con un figlio e la compagna che lo ha lasciato. Ma ci sentiamo spesso».
A proposito di figli, lei ha raccontato che quando tornò a Tunisi scoprì di essere incinta.
«Non vorrei parlarne».
Non è una colpa.
«È il privato. Comunque se ho deciso di fare cinema fu per quel bambino, per sentirmi indipendente».
Non deve essere stato facile.
«Non lo era. Con l’aggravante che Franco Cristaldi, il mio produttore, mi consigliò, per esigenze di carriera, di tenere nascosta la cosa. Di non dare scandalo».
E accettò?
«Per un po’ sì. Alla fine decisi di dirlo. Mi sentii una donna libera nel profondo. Posso accendermi una sigaretta? »
Prego.
«Imparai a fumare dopo che Visconti mi obbligò a farlo in Vaghe stelle dell’orsa ».
Dopo il successo con Visconti, ha recitato a Hollywood.
«Il mio primo film americano, regia di Henry Hathaway, fu con John Wayne e Rita Hayworth. Una sera Rita entrò nella mio camerino e disse una cosa che mi fece piangere: anch’io una volta ero bella come te. Lo disse con una pena infinita nelle parole. Era palesemente alterata. C’era in lei un insormontabile senso di decadenza, ma per me continuava a essere Gilda».
Cos’è la bellezza per una donna bella?
«Non è un traguardo, ma uno strumento. Uno dei primi articoli su di me fu Pasolini a scriverlo. Disse che la mia bellezza era contenuta nello sguardo».
Lo ha conosciuto?
«Bene. Perché in quel periodo cominciai a frequentare Alberto Moravia».
So che le dedicò un libro.
«Un libro nato dopo una lunga intervista».
Che sensazione le faceva il grande scrittore?
«Non lo conoscevo. Andai la prima volta a casa sua per questa famosa intervista. Lo trovai seduto davanti alla macchina da scrivere. Lievemente rigido. Ero imbarazzata ».
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Perché?
«Mi disse che di un’attrice gli interessava il corpo. Le sensazioni che quel corpo provava. Mi fece delle domande di sconcertante semplicità. Quando si alza la mattina cosa fa come primo gesto. Quando è in bagno, nella vasca, cosa pensa. E così via».
Cosa la colpì di quell’incontro?
«La totale assenza di pretenziosità intellettuale. Io non me la tiravo e neppure lui».
Non si è mai sentita una diva?
«Mai. Ho sempre detto: giudicatemi per i film che ho fatto, non per la mia vita privata. Il divismo confonde i due piani».
Però la vita privata si è intrecciata con il suo lavoro.
«A cosa pensa?»
Tornerei per un attimo sulla figura di Cristaldi. Si ha la sensazione che ne abbia sofferto la presenza.
«Mi amareggiarono certe imposizioni, certe durezze. Abbiamo avuto un rapporto che non è mai stato tale veramente
».
Spesso ha condiviso la sua vita con uomini particolarmente
tosti.
«Mi piacciono forti, ma giusti. Come Pasquale Squitieri ».
Che ruolo ha avuto?
«È stato l’uomo della mia vita».
Perché è stato?
«Da tempo non stiamo più insieme. Però continuiamo a sentirci spesso. Abbiamo tra le altre cose una figlia in comune».
Ha sofferto per la conclusione?
«No, il problema fu anche mio quando decisi di trasferirmi a Parigi. Ora vivo lì. Sola. Tranquilla. In una bella casa davanti alla Senna».
Avverto una leggera malinconia.
«È la tristezza per tutto quello che non torna più. Com’eri tu e come erano i tuoi amici. Rividi qualche tempo fa Il Gattopardo, nella versione restaurata da Martin Scorsese. Fu una serata strana. Avevo accanto Delon che per tutto il film mi tenne la mano. Sembrava volesse staccarmela. Poi lo sentii piangere. E gli chiesi che accade, Alain. Siamo gli unici rimasti vivi, disse. Questa è la grande tristezza. Steve McQueen che ospitavo a Roma, Cary Grant con cui andai insieme a un concerto dei Beatles a Los Angeles; Marcello e Vittorio con cui ho esordito. Gente che ho amato, o magari detestato, e che non c’è più. Cosa resta?»
Cosa resta?
«Qualche ricordo e un po’ di fede».
Un po’ quanta?
«Abbastanza per entrare in una chiesa. L’importante che sia vuota. Mi dà fastidio essere riconosciuta».
Il successo le pesa?
«Non ci credevo al successo. Mi sembrava un evento assurdo. Poi invece è arrivato».
Moravia le chiedeva del corpo. Come lo vive oggi?
«Non mi piacciono le attrici che si rifanno. Ti guardi allo specchio e non sai più chi sei. Non si può fermare il tempo. Non ne faccio un dramma. Ciò che passa attraverso lo schermo è soprattutto la capacità di comunicare emozioni».
Lo schermo non mente?
«Oppure mente troppo. A volte fa sognare».
Lei sogna?
«Sì, vado a letto tardi. Chiudo gli occhi e vorrei vedere il volto delle persone care».
I sogni sono involontari.
«Quelli tendo a dimenticarli. Da piccola sognavo spesso di gettarmi da una finestra. Ci penso sempre quando mi affaccio dal balcone della mia casa parigina. Penso a quel sogno e alla mia Africa».
Con quale stato d’animo?
«Mi viene da piangere al pensiero di cosa accade in quel continente. Sono impegnata con diverse organizzazioni umanitarie. Ci sono le donne da difendere, i bambini da proteggere, la natura da preservare, le malattie da sconfiggere. La gente non ha quasi mai la parola. O la si interpella solo demagogicamente. Vorrei che ricominciassimo da qui».