Carlo Rovelli, La Repubblica 20/7/2014, 20 luglio 2014
DA NEWTON A EINSTEIN L’INTUIZIONE È SEMPRE IL CONTO CHE NON TORNA
ANNI fa, durante una conferenza di fisica mi sono trovato a cena accanto al premio Nobel Subrahmanyan Chandrasekhar, personaggio per noi giovani mitico per la sua creatività. “Chandra” era allora un anziano e affabile signore, ma di poche parole. Nel mezzo della cena, Chandra si volta verso di me e mi dice: «Sai, Carlo, per fare della buona fisica… » Io sbarro gli occhi e resto impietrito in attesa le sue parole. «… per fare della buona fisica, non è essere particolarmente intelligenti che serve». Pronunciate dal genio che ha compreso il limite superiore della massa delle stelle, e ha sviluppato la teoria matematica dei buchi neri, queste parole mi sembrano assurde. Ma la conclusione è disarmante: «Quello che serve, è lavorare molto».
Ripenso spesso alle parole di Chandrasekhar ogni volta che mi scontro con il mito della “creatività pura” e della “libera immaginazione”. Per costruire il nuovo, sento dire, bisogna violare le regole e liberarsi della zavorra del passato. Penso che la creatività scientifica non funzioni così. Einstein non si è svegliato una mattina pensando che nulla vada più veloce della luce. O Copernico pensando che la Terra gira attorno al Sole. O Darwin che le specie evolvono. Le idee nuove non cascano dal cielo. Nascono, al contrario, da una profonda immersione nella conoscenza presente. Dal farla propria intensamente, fino a viverci immersi. Dal rivoltare infinitamente i problemi aperti, provare tutte le strade e poi ancora tutte le strade e poi ancora tutte le strade. Fino a che là dove meno ce lo aspettavamo, scoviamo una fessura, una crepa, un passaggio. Qualcosa che nessuno aveva notato, eppure non è in contraddizione con ciò che sappiamo, qualcosa di minuscolo su cui fare leva per scalfire il bordo levigato e inafferrabile della nostra infinita ignoranza, aprire un varco verso un territorio nuovo.
Così hanno lavorato le menti più creative della scienza e così lavorano oggi mille piccoli ricercatori che fanno avanzare il nostro sapere. Le idee non piovono da cielo. Si scovano in un traffico lungo e snervante con i margini del nostro sapere. Copernico conosceva il libro di Tolomeo nei più minuti dettagli, fra le sue pieghe ha intravisto la nuova forma del mondo. Keplero ha lottato per anni contro i dati astronomici raccolti dall’astronomo Tycho, prima di decifrare in questi dati le orbite ellittiche che gli hanno dato la chiave per capire il sistema solare.
Il sapere nuovo nasce dal sapere del presente perché in questo ci sono contraddizioni, tensioni irrisolte, dettagli che non tornano, linee di frattura anche profonde. L’elettromagnetismo non tornava bene con la meccanica di Newton; questa è stata la prima chiave per Einstein. Le eleganti traiettorie ellittiche dei pianeti scoperte da Keplero non quadravano con le parabole calcolate da Galileo; questa è stata la chiave per Newton. Gli spettri atomici misurati da anni non tornavano con la meccanica classica, questo faceva impazzire Heisenberg. Queste contraddizioni interne, fra teoria e teoria, fra dati e teoria, fra componenti diverse del nostro sapere, generano la tensione apparentemente irrisolvibile da cui poi scaturisce il nuovo. Il nuovo poi viola le vecchie regole, ma per riuscire a risolvere contraddizioni, non per il gusto di farlo.
In uno splendido brano della sua Settima lettera, Platone racconta il processo di acquisizione della conoscenza: «Dopo molti sforzi, quando nomi, definizioni, osservazioni e altri dati sensibili sono portati in contatto e confrontati a fondo gli uni con gli altri, nel corso di uno scrutinio e un esame cordiale ma severo [...] alla fine con un improvviso lampo brilla, per qualunque problema, la comprensione, e una chiarezza di intelligenza i cui effetti esprimono i limiti estremi del potere umano». Chiarezza di intelligenza, ma dopo «molti sforzi». Duemila e quattrocento anni dopo, Alain Connes, uno dei grandi matematici viventi, descrive così come ci si scopre matematici: «Si studia, si studia, si studia ancora, poi un giorno, studiando, c’è una strana sensazione: “ma no, non può essere così, qui c’è qualcosa che non torna”. Da quello momento, sei uno scienziato».