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 2014  luglio 20 Domenica calendario

QUEI PELUCHE LASCIATI A VEGLIARE


GRABOVO CAMMINANO giornalisti e autisti, passanti, curiosi e ragazzini. Chi sposta una lamiera, chi alza un libro di bordo per vedere cosa c’è scritto: «Fino a venerdì sera qui c’era il corpo del comandante», assicura uno dei ragazzi del villaggio di Rassipnoe, a poche centinaia di metri da dov’è precipitata la cabina. Un anziano combattente “filorusso” se ne sta lì seduto con il fucile, sorridente e gioviale. É il pretoriano di guardia, l’unico: «La cabina, sì. Eccola là, la cabina di pilotaggio! », indica la strada come un vigile urbano. Lasciate ogni speranza di trovare la pistola fumante, la prova provata che questa orribile tragedia sia andata così e non cosà: la scena del crimine è definitivamente compromessa, modificata dalla sbadataggine o dal calcolo, dall’incapacità o dalla cialtroneria di chi dovrebbe vigilare.
La cabina è a una decina di chilometri da dove riposa, tra le spighe di un campo di grano a Grabovo, un tronco della fiancata dell’aereo. Lì è la scena principale di questo teatro dell’assurdo. Nervosi e a volte anche ubriachi, i ribelli controllano il sito impedendo di oltrepassare la loro linea non solo ai giornalisti, come sarebbe sacrosanto, ma persino agli esperti civili dell’Osce, ai quali viene consentita solo una presenza marginale. La strada che taglia i bei campi di grano e di girasole tra il verde intenso dello stagno e la grande fattoria dei polli Grabovsky, chiusa tre anni fa, è un idillio bucolico rovinato dalla cronaca della guerra civile. Accanto alla massicciata, un telo nero della morgue descrive i lineamenti di un corpo. Lo sbarramento dei ribelli - diretto da un comandante che si fa fotografare e intervistare, barba sfatta da capobastone, per ribadire che lì comanda lui - è cento metri più avanti, oltre il relitto della fusoliera. Altri centro metri più in là c’è la morgue.
Decine di corpi allineati per terra nei sacchi neri, ed è già un passo avanti rispetto a venerdì quando erano esposti allo scempio. Anatoli ne ha ricomposti 25, ieri. Anatoli è un becchino volontario, «sentivo qualcosa dentro che mi diceva di venire a dare una mano». Lavora in una squadra di venti persone: quattro ore di caccia ai cadaveri insieme a sua sorella Oxana, al cognato Sergei e alla nipote Karina. «Non abbiamo preso un soldo», dicono orgogliosi. Sono loro l’alias degli agenti della mortuaria - e in parte anche della polizia scientifica - che i ribelli “filorussi” hanno messo in campo per un disastro aereo tanto grave e misterioso. «Noi uomini – racconta Anatoli – siamo stati incaricati di trovare i resti umani che poi vengono fotografati e descritti, e di ricomporli e metterli nei teli. Le donne invece si occupano degli altri detriti, segnalando dove sono su una mappa». Camminano come rabdomanti in campi immensi, ma i 25 chilometri quadrati in cui sono dispersi i rottami e i corpi sono un oceano rispetto ai 20 aiutanti faida- te.
«Quei turisti li ho visti piovere giù dal cielo, ero con il mio bimbo», dice Yulia, una signora di Rassipnoe: «Per fortuna lui è troppo piccolo e non ha capito». Li hanno visti da decine di chilometri di distanza, i turisti uccisi da una guerra altrui. E quando non li hanno visti, li hanno sentiti: raccontano di una donna che si è vista precipitare un cadavere sul tetto, ce n’è un’altra che ha rischiato la pelle per un pezzo di metallo: «Mi ha sfondato il tetto di casa, volete vedere?». C’è un buco di una decina di centimetri di diametro nel tetto di plastica, accanto al cucinotto in cui sobbolle una pentola. Lila, ostetrica 43enne elegante e scioccata, mostra il buco sul materasso della sua poltrona, e sotto il buco sulla struttura della poltrona, e ancora sotto la voragine profonda sette o otto centimetri sul pavimento: «Mi avrebbe uccisa. Vogliamo solo vivere in pace, parlare liberamente la nostra lingua russa e non vogliamo più saperne niente del governo di Kiev: ma perché non ci lasciano stare?».
Sergei, ingegnere 41enne nella vicina miniera di carbone, ha creduto fosse arrivata la sua ora: «Ho sentito un rumore, come un’esplosione. Sono uscito di corsa per scappare al rifugio e appena fuori ho visto qualcosa cadere dal cielo: “Una bomba!”, ho urlato, e mi sono tuffato in un fosso». Invece era la prua dell’aereo. «Dal fosso, guardando su, ho visto tutti quei corpi precipitare. Cadevano agitando le braccia e le gambe, le sbattevano forte come se fossero ancora vivi... Un corpo è atterrato a venti metri da me. Ha fatto un rumore orrendo, un tonfo sordo che non dimenticherò mai».
Anja, 23enne ispettore del fisco, ha contato 29 cadaveri: «Sono stati rimossi venerdì sera tardi». Ieri mattina la gente del villaggio ha reso omaggio alle vittime come ha potuto: mazzi di fiori e una stampata delle foto con le vittime più giovani. Ogni bambino ha offerto il suo bambolotto, e ora almeno ci sono gli orsetti a vigilare sulle follie degli adulti.
La valigia rossa rigida accanto agli zainetti, la ricordate nelle prime foto diffuse? Ora è aperta, lì in mezzo al campo a Grabovo. Le borsette di qualche cliente di prima classe, precipitate vicino alla cabina di comando a Rassipnoe, sono tutte aperte, anche quella con dentro le scarpette da bimba con ancora il cartellino del prezzo. Dicono i ribelli che gli oggetti di valore sono stati portati al sicuro, replica il governo ucraino consigliando ai parenti di bloccare le carte di credito. Nessuno disturba, mentre curiosi tra le memorie di una vita interrotta: la splendida collezione di vinili di musica classica e le magliette ricordo della nazionale olandese, l’abitino da sera fresco di shopping e i documenti in gergo tecnico dell’aviazione. Ed ecco qui le cartoline: una dice “...piacere di viaggiare Lambretta”. Mentre curiosi, respiri a fatica quell’odore di morte, e osservi il lavoro sporco che fanno le mosche attirate dal sangue. Mancano all’appello un centinaio di corpi. Di tanto in tanto qualcuno che si è spinto a curiosare un po’ più in là tra i girasoli fa una smorfia e indica qualcosa tra nugoli di insetti.
Ieri, primo giorno da tanti, la guerra si è fermata davvero. La tregua ha retto, non si spara nemmeno a Lugansk, dove venerdì l’artiglieria aveva colpito duro. Anton, un minatore grande e grosso in maglietta bianca e cappellino blu, in questi giorni pensa ad altro. «Ci dispiace così tanto per questa gente », dice senza trattenere le lacrime. «Tra i rottami ho raccolto un album da bambini e me lo sono portato a casa: vorrei poterlo restituire ai parenti, l’ultimo disegno non è finito: il bimbo lo ha lasciato a metà».